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  • Gli antidepressivi

    Passiamo ora alla descrizione delle classi di antidepressivi e del loro meccanismo d’azione.

    Gli antidepressivi inibitori delle monoaminossidasi (IMAO)

    Gli IMAO sono una classe farmacologica caratterizzata da elevata efficacia terapeutica, ma scarsa maneggevolezza. Come accennato nel capitolo precedente, svolgono la loro azione bloccando la monoaminossidasi, enzima che “distrugge” i neurotrasmettitori, determinando così l’aumento della loro concentrazione nello spazio sinaptico e quindi l’effetto antidepressivo.

    Gli IMAO hanno numerosi effetti secondari che li rendono poco maneggevoli. A livello del Sistema Nervoso Centrale è abbastanza frequente la comparsa d’insonnia, sensazione d’irrequietezza, tremori e vertigini. A livello del Sistema Nervoso Autonomo spesso provocano ipotensione arteriosa, soprattutto nei pazienti anziani.

    Durante la terapia con gli IMAO è necessario evitare l’ingestione di alimenti ad alto contenuto di tiramina quali vino rosso, formaggi stagionati, aringhe, o di alcuni farmaci quali ipertensivi o vasocostrittori nasali. L’interazione con tali alimenti o farmaci può determinare cefalea pulsante, vomito, dolore toracico, iperpiressia, ipertensione grave, talvolta fino a 250-300 mm/Hg, stato di ottundimento.

    L’interazione degli IMAO con gli antidepressivi triciclici è in alcuni casi responsabile della comparsa di una sindrome acuta solitamente benigna denominata “Sindrome Serotoninergica”, dovuta al brusco incremento della quantità di serotonina cerebrale e caratterizzata da diarrea, tremori, febbre, confusione mentale e agitazione.

    Gli IMAO hanno, quindi, scarsa maneggevolezza e per tale motivo non sono più utilizzati nella pratica clinica.

    Gli antidepressivi triciclici (TAC)

    Gli antidepressivi triciclici sono normalmente considerati farmaci efficaci, ma con fastidiosi effetti collaterali.

    La loro attività clinica si realizza attraverso il blocco della ricaptazione della serotonina, della noradrenalina e in minor misura della dopamina a livello dello spazio sinaptico.

    Tra gli antidepressivi triciclici vi sono molecole che si differenziano in base alla loro capacità d’inibire prevalentemente la ricaptazione della serotonina e/o della noradrenalina.

    Ad esempio la clorimipramina (Anafranil) blocca prevalentemente la ricaptazione della serotonina, l’imipramina (Tofranil) agisce in modo più spiccato sulla noradrenalina mentre l’amitriptilina (Laroxyl) blocca la ricaptazione di entrambe.

    La risposta antidepressiva è estremamente variabile: è possibile trovare pazienti che rispondono bene a dosi di 75-100 mg ed altri che devono raggiungere i 200-250 mg .

    La dose va sempre personalizzata in rapporto all’età, alle condizioni mediche, a precedenti risposte al farmaco e alla gravità dei sintomi depressivi.

    Gli effetti collaterali possono essere descritti in base al sistema colpito. Elenchiamo i più frequenti.

    Sistema Cardiovascolare: spesso, soprattutto all’inizio del trattamento, compare ipotensione ortostatica e tachicardia.

    Sistema Neurovegetativo: la bocca secca, la stipsi, il ritardo dell’eiaculazione sono effetti collaterali estremamente frequenti anche se, nell’ambito della stessa classe, alcune molecole (come ad esempio l’amitriptilina e l’imipramina) inducono tali effetti collaterali più frequentemente di altre (come ad esempio la desipramina). Meno frequenti, ma non rari, sono la riduzione della libido, la sudorazione profusa e, in caso di lunghi trattamenti, l’aumento ponderale.

    Effetti collaterali Neurologici: sedazione e rallentamento psicomotorio sono molto frequenti all’inizio, ma spesso diminuiscono d’intensità nel corso del trattamento.

    Le interazioni più a rischio sono quelle con l’alcool (aumento degli effetti collaterali), anfetamine o anfetaminosimili (potenziamento degli effetti dell’anfetamina), antipertensivi (riduzione/annullamento dell’attività ipotensiva).

    I triciclici sono antidepressivi a largo spettro e quindi potenzialmente utilizzabili in tutti i quadri depressivi. Da sottolineare che tanto maggiore è la dose terapeutica necessaria, tanto più marcati sono i fenomeni collaterali ed è per tale motivo che, nella pratica clinica, i TAC sono attualmente ritenuti antidepressivi di seconda scelta.

    Gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI)

    A questa classe farmacologica appartengono molecole con meccanismo d’azione basato sul blocco selettivo della ricaptazione della serotonina, di efficacia medio/alta e ben tollerati.

    La prima molecola di questa classe è stata la fluoxetina (Prozac) e, a seguire, sono state introdotte la fluvoxamina, la paroxetina, la sertralina, il citalopram.

    Gli SSRI sono molecole dotate di effetti secondari non particolarmente fastidiosi e comunque gestibili, soprattutto se s’inizia con quantità minime e l’incremento fino alle dosi terapeutiche avviene in maniera graduale.

    I fenomeni collaterali più frequenti sono i seguenti:

    Apparato gastrointestinale: in circa il 20-30 % dei casi compaiono sintomi quali nausea, gastralgia, diarrea, che normalmente si affievoliscono durante il trattamento.

    Sintomi psichici: i sintomi d’ansia e irritabilità sono riferiti da circa il 20% dei pazienti. Raramente l’attivazione è violenta e i pazienti lamentano una forte “agitazione” interna. Tali sintomi sono facilmente controllabili con l’associazione di ansiolitici a basso dosaggio.

    Sfera sessuale: il disturbo più frequente consiste nella difficoltà orgasmica. Tale disturbo è dose dipendente e solitamente scompare quando si riduce il farmaco.

    Sintomi somatici: cefalea, insonnia e ipersonnia sono meno frequenti rispetto ai disturbi precedentemente descritti e tendono a ridursi nel corso del trattamento.

    Gli SSRI sono utilizzati nella terapia di mantenimento dell’episodio depressivo maggiore o nella profilassi della depressione ricorrente. Sono farmaci di prima scelta in alcune forme di depressione con caratteristiche di atipicità (presenza d’ipersonnia o abusi alimentari), in casi di depressione accompagnata da ansia, nel Disturbo da Attacchi di Panico, nel Disturbo d’Ansia Generalizzato, nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo, nella Fobia Sociale e nelle Fobie Semplici

    Gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina e della noradrenalina (SNRI)

    La venlafaxina è il capostipite di una classe farmacologica in grado d’inibire la ricaptazione di serotonina e noradrenalina. Ha un livello di tollerabilità particolarmente elevato e ciò consente di raggiungere alte dosi anche nel giro di pochi giorni.

    Gli effetti collaterali sono legati prevalentemente all’attivazione serotoninergica e compaiono con incidenza variabile. Molto frequenti, soprattutto all’inizio del trattamento, sono cefalea, nausea, disturbi del sonno; meno frequenti sono irritabilità, tremore, anoressia, disturbi della sfera sessuale.

    L’azione combinata su serotonina e noradrenalina conferisce alla venlafaxina un potenziale antidepressivo elevato, paragonabile a quello dei triciclici, rispetto ai quali è molto più tollerabile.

    Recentemente è stata introdotta in commercio la duloxetina. Anch’essa inibisce la ricaptazione della serotonina e della noradrenalina, ha spiccata azione antidepressiva e, rispetto alla venlafaxina, determina meno fenomeni collaterali.

    Antidepressivi specifici noradrenergici e serotoninergici (NaSSA)

    La mirtazapina è il capostipite di una nuova classe di antidepressivi che agiscono potenziando la neurotrasmissione della noradrenalina e della serotonina attraverso il blocco specifico dei recettori presinaptici alfa-2 dei due mediatori.

    I fenomeni collaterali più frequenti sono la secchezza delle fauci, la sedazione, la sonnolenza, l’aumento dell’appetito, l’aumento ponderale.

    Non sono state segnalate interazioni degne di nota fra mirtazapina e altre molecole, se si esclude l’aumento dell’attività sedativa di alcool e benzodiazepine.

    Ha un’azione terapeutica ampia e agisce anche su disturbi depressivi maggiori. Caratteristica della mirtazapina è la spiccata azione sedativa che la fa preferire in tutte quelle forme caratterizzate da insonnia, ansia, irritabilità.

    Inibitori selettivi della ricaptazione della noradrenalina (NaRI)

    La reboxetina è una molecola in grado di inibire selettivamente la ricaptazione della noradrenalina.

    Gli effetti secondari più frequentemente presenti sono la stipsi, la secchezza delle fauci, la sudorazione, i disturbi dell’addormentamento e la difficoltà di svuotamento della vescica.

    Grazie all’azione sulla noradrenalina, la reboxetina è indicata nel trattamento delle depressioni medio-gravi caratterizzate da rallentamento, apatia, mancanza di spinta motivazionale.

    Inibitori selettivi della ricaptazione della noradrenalina e dopamina (DNRI)

    Il bupropione è un antidepressivo utilizzato da molti anni in America e nel 2008 introdotto anche in Italia. Esplica la sua azione attraverso l’inibizione della ricaptazione della dopamina e della noradrenalina ed è indicato in quelle forme depressive in cui prevalgono anergia e inibizione e in cui la componente ansiosa è modesta (se è elevata, è meglio utilizzare gli SSRI). Rispetto agli altri antidepressivi determina con minore frequenza aumento di peso e disfunzioni in ambito sessuale.

    Altri antidepressivi

    Nel 2010 è stato introdotta in commercio la Agomelatina, un agonista della melatonina sui recettori MT1 e MT2 , che si comporta da antagonista nei confronti della serotina inibendo i recettori 5-HT2C. Non siamo ancora in possesso di dati clinici sufficienti per pronunciarci sulla validità del suo impiego nella terapia della depressione.

    La gestione della terapia antidepressiva

    La scelta del farmaco antidepressivo

    Nella scelta dell’antidepressivo è necessario tenere presenti la previsione del tempo di risposta, la gravità dei sintomi, la conoscenza degli effetti collaterali di ogni classe di farmaci, la ricerca delle dosi più efficaci e meglio tollerate.

    I principali elementi di riferimento sono:

    – meccanismo d’azione;

    – risposte a precedenti trattamenti antidepressivi;

    – classificazione clinica dell’episodio depressivo.

    La scelta dipende dai sintomi prevalenti della depressione da curare. Ad esempio, se prevalgono malinconia e inibizione sono più indicati farmaci che agiscono sui sistemi di trasmissione noradrenergica (NaRI), mentre, se prevalgono ansia e ossessività sono da preferire farmaci che agiscono sul sistema serotoninergico (SSRI).

    Indipendentemente dal tipo di disturbo dell’umore, nella gestione del trattamento della depressione è necessario tenere presente quanto segue.

    Con differenze minime e difficilmente prevedibili, tutti i trattamenti antidepressivi iniziano a manifestare l’effetto terapeutico dopo un periodo di latenza oscillante tra le tre e le quattro settimane. Tale periodo costituisce una fase delicata per il possibile aggravamento dei sintomi, per la demoralizzazione del paziente a causa dell’apparente inefficacia della terapia e per la possibile presenza di effetti collaterali.

    Nelle prime settimane di terapia può, inoltre, manifestarsi la “Sindrome da attivazione”, che consiste nella presenza d’irrequietezza, d’iperattività motoria e, spesso, anche di sintomi della serie ansiosa. Tale sindrome è conseguente all’aumento, nelle cellule nervose, della quantità di serotonina e noradrenalina dopo le prime assunzioni, tende ad attenuarsi spontaneamente nel corso del trattamento e risponde positivamente all’associazione di ansiolitici.

    Gli effetti collaterali sono molto diversi in rapporto alla classe farmacologica. In linea generale, come accennato in precedenza, i fenomeni collaterali di triciclici ed IMAO sono superiori rispetto agli antidepressivi più recenti, quali ad esempio gli SSRI.

    E’ importante tenere presente i tempi di comparsa ed il decorso degli effetti collaterali. Alcuni, quali ad esempio l’ipotensione e la sedazione da triciclici o i disturbi gastrointestinali e la sindrome da attivazione da SSRI, sono ad insorgenza rapida e tendono ad attenuarsi nel corso del trattamento.

    Altri, come la stipsi o la secchezza delle fauci da triciclici o i disturbi della funzione sessuale da SSRI, tendono a presentarsi in modo più graduale e ad attenuarsi più lentamente.

    I primi (ipotensione, sedazione e disturbi gastrointestinali) hanno spesso effetto molto negativo sulla collaborazione del paziente alla terapia non tanto in rapporto alla loro gravità, quanto a causa dell’insorgenza nella fase di latenza della risposta, apparendo quindi come l’unica modificazione indotta dalla terapia.

    I secondi (stipsi, secchezza delle fauci e disfunzioni sessuali) sono, nella maggior parte dei casi, tollerati in modo migliore in quanto si manifestano quando sono già presenti i primi segni di miglioramento.

    La valutazione delle modificazioni indotte dal trattamento antidepressivo costituisce una delle fasi più delicate della conduzione della terapia.

    Si possono distinguere:

    – fase del periodo di latenza: ha la durata di circa un mese, durante il quale la dose del farmaco è gradualmente incrementata, fino a raggiungere livelli ritenuti efficaci e/o tollerabili;

    – fase della risposta terapeutica: dura in media 1-2 mesi, durante i quali il quadro clinico depressivo inizia a migliorare fino ad essere giudicato clinicamente superato;

    – fase del consolidamento dell’effetto terapeutico, della durata media di 2-3 mesi, in cui il paziente è più o meno asintomatico rispetto alla precedente condizione depressiva, ma necessita ancora di trattamento farmacologico a dose piena;

    – fase di mantenimento e sospensione, di durata variabile in rapporto al tipo di disturbo. In tale fase viene effettuata la riduzione graduale del farmaco fino alla sospensione.

    La valutazione della risposta terapeutica è il parametro che orienta le modificazioni della dose dell’antidepressivo. In linea generale, la riduzione o la sospensione in un paziente in corso di miglioramento, ma non ancora libero dai sintomi, può determinare la riacutizzazione del quadro clinico (effetto rebound).

    E’ importante considerare che non tutti i sintomi hanno lo stesso andamento cronologico alla risposta della terapia.

    Angoscia, tendenza al pianto, disturbi del sonno rispondono precocemente, a volte durante il periodo di latenza, dando l’impressione fuorviante di un rapido superamento dello stato depressivo.

    Altri sintomi, invece, come ad esempio l’ideazione delirante, si modificano di norma in un tempo intermedio, mentre i sintomi più strutturali della depressione, quali melanconia e anedonia (incapacità di provare piacere), richiedono un periodo più lungo per la remissione e svolgono quindi il ruolo di reali indicatori della fase della risposta terapeutica.

    Strategie terapeutiche nel paziente resistente

    Deve essere considerata come resistenza al trattamento antidepressivo la persistenza di “sintomi strutturali” (quali melanconia e anedonia) dopo un periodo di trattamento teoricamente corrispondente a quello della risposta terapeutica, cioè dopo almeno 2-3 mesi di terapia. In tali casi le strategie possibili sono le seguenti:

    – incremento della posologia: compatibilmente con la tollerabilità individuale, la dose dell’antidepressivo deve essere portata fino ai livelli massimi consentiti;

    – associazione di altri antidepressivi: ha lo scopo di potenziare i sistemi di neurotrasmissione non sufficientemente stimolati dal primo trattamento;

    – cambio del farmaco antidepressivo: è da prendere in considerazione nei casi di reale inefficacia del trattamento o d’intollerabilità degli effetti collaterali. Il nuovo farmaco deve essere introdotto utilizzando una sostituzione crociata, cioè con dosi rapidamente crescenti associate a dosi più lentamente decrescenti del farmaco da sostituire, sospendendo quest’ultimo solo dopo avere raggiunto dosi terapeutiche del nuovo.

    L’argomento sarà ripreso ed approfondito nel capitolo successivo.

    Fase di mantenimento

    Il passaggio alla fase di mantenimento del trattamento può avvenire dopo un periodo di stabilizzazione della remissione clinica di almeno 2-4 mesi. La riduzione della dose deve essere graduale, con monitoraggio attento delle possibili modificazioni cliniche e valutazione dell’eventuale necessità di ritornare, anche temporaneamente, alle dosi precedenti.

    La sospensione del trattamento antidepressivo

    La sospensione della terapia deve essere programmata solo dopo un adeguato periodo di mantenimento e stabilizzazione della remissione dei sintomi. E’ importante che le dosi siano ridotte in modo molto graduale.

    In linea generale deve essere effettuata più precocemente nei pazienti con disturbo bipolare in quanto esposti al rischio di viraggio verso crisi maniacali.

    Antidepressivi e comportamento alimentare

    Il controllo fisiologico dell’appetito è gestito da un sistema integrato, una volta definito semplicemente “centro della fame”, oggi invece riconosciuto come circuito complesso dove agiscono sostanze ad azione stimolante o inibente.

    La conoscenza dei meccanismi farmacologici che inducono l’aumento o la riduzione del peso corporeo è fondamentale nella scelta del trattamento.

    Mentre l’antagonismo dopaminergico stimola l’assunzione di cibo, l’inibizione della ricaptazione della serotonina determina un senso di sazietà ed è, quindi, utilizzata nel trattamento della bulimia nervosa.

    Tra i farmaci antidepressivi, l’amitriptilina può indurre incrementi ponderali di almeno 6 Kg in più del 30% dei casi.

    Gli SSRI inducono, invece, riduzione del peso corporeo o aumento di entità lieve nel trattamento a lungo termine.

    Antidepressivi e sessualità

    Gli antidepressivi triciclici determinano molti effetti collaterali di tipo sessuale. Tra questi assumono particolare rilievo la riduzione della libido, l’impotenza, l’eiaculazione dolorosa, l’eiaculazione retrograda e l’anorgasmia.

    Gli SSRI possono causare riduzione della libido e dei livelli d’eccitazione, anche se il disturbo più frequente è il ritardo orgasmico. Nell’uomo tale fenomeno collaterale viene “sfruttato” utilizzando questa classe di antidepressivi nella terapia della eiaculazione precoce.

    Diverse opzioni possono essere considerate nella gestione degli effetti collaterali riguardanti la vita sessuale:

    – riduzione del dosaggio;

    – attesa: nei primi mesi del trattamento, alcuni effetti collaterali tendono a ridursi;

    – variazione della terapia: soprattutto nel caso in cui gli effetti collaterali siano particolarmente rilevanti.

    Terapia farmacologica e psicoterapia

    La terapia antidepressiva è “a tempo”, deve cioè durare un periodo limitato. Nella fase acuta l’assunzione di farmaci è finalizzata alla risoluzione dei sintomi, indipendentemente dalle cause che li hanno determinati.

    Nella fase successiva, quando cioè i sintomi non sono più presenti, è necessario utilizzare strumenti terapeutici mirati alla cura delle cause del disturbo depressivo. A volte sono facilmente individuabili, come ad esempio problematiche legate alla vita di coppia, nel qual caso è opportuno avviare una terapia psicologica della coppia.

    Capita però spesso che il soggetto non riesca ad individuare la causa della sua crisi in quanto i conflitti non sono presenti nella coscienza, ma risiedono nell’inconscio: sono una sorta di spina irritativa, di elemento perturbatore interno che è bene individuare, al fine di evitare che faccia nuovamente sentire la sua presenza attraverso altre successive crisi. In tali casi è opportuno che il paziente inizi una psicoterapia individuale.

    L’argomento sarà ripreso e approfondito in un paragrafo successivo.

    Depressione resistente alla terapia farmacologica

    I dati della letteratura riportano che circa il 70% dei pazienti sottoposti a trattamento con antidepressivi ha una buona remissione dei sintomi, mentre circa il 30% non risponde alla terapia in modo soddisfacente. In tali casi si parla di depressione resistente. La maggior parte dei pazienti resistenti risponde alla somministrazione di un secondo antidepressivo con differente profilo farmacologico o all’associazione di due antidepressivi. Il 3-4%, invece, non risponde ad alcun trattamento e in tali casi si parla di depressione refrattaria.

    La Scala di Hamilton della Depressione (HAM-D)

    Lo strumento più comunemente usato per misurare la gravità di un disturbo depressivo e i miglioramenti ottenuti con la cura farmacologica è la Scala di Hamilton della Depressione (HAM-D), ideata da Max Hamilton e pubblicata per la prima volta nel 1960. Oggi viene utilizzata a scopo di ricerca e per valutare i risultati del trattamento. La scala contiene 17 items in forma di domande ad ognuna delle quali, a seconda della risposta, viene assegnato un punteggio da 3 a 5: se la somma dei punti delle 17 risposte è inferiore a 7 la valutazione è di assenza di depressione; un valore compreso tra 8 e 17 indica depressione lieve; tra 18 e 24 indica depressione moderata; più di 25 indica depressione grave.

    Definizioni

    Al fine di affrontare in modo organico la questione della depressione resistente, è necessario fornire alcune definizioni, ricavate dalla letteratura.

    Si parla di remissione quando il paziente è libero da sintomi depressivi (valore inferiore a 7 della scala di Hamilton). Il raggiungimento dello stato virtualmente asintomatico deve essere mantenuto per due mesi consecutivi. Si parla di guarigione quando la remissione è presente da almeno sei mesi consecutivi.

    Per quanto riguarda la terapia antidepressiva, si possono verificare diverse condizioni: si può avere una risposta, una non-risposta o una risposta parziale.

    Si parla di risposta al trattamento quando si ottiene la riduzione di almeno il 50% del punteggio basale alla scala HAM-D.

    Si parla di non-risposta quando i sintomi persistono al punto da richiedere un cambio di terapia: tale condizione corrisponde ad una riduzione inferiore al 25% alla scala HAM-D.

    Si parla di risposta parziale quando vi è un miglioramento nella fase iniziale della terapia, ma continuano ad essere presenti sintomi. Tale condizione corrisponde ad una diminuzione dei punteggi di partenza alla scala HAM-D compresa tra il 50% e il 25%.

    I concetti di resistenza e refrattarietà fanno riferimento all’intensità, alla durata e al numero di trattamenti.

    Per resistenza s’intende la minima risposta al trattamento con un antidepressivo di provata efficacia, a dosi e per tempi adeguati (almeno 6 settimane) e regolarmente assunto dal paziente.

    Il termine di refrattarietà viene utilizzato per i casi in cui non è presente alcuna risposta al trattamento ed i sintomi risultano immutati o peggiorati.

    Per stabilire con chiarezza, nella pratica clinica, se la mancata risposta è conseguente ad una resistenza vera e propria oppure se si tratta di una pseudoresistenza occorre prendere in esame l’idoneità del trattamento e la durata della cura. Si parla di pseudoresistenza quando la mancata risposta al trattamento è dovuta a errori commessi dal terapeuta e/o dal paziente.

    Gli errori terapeutici più frequenti consistono nell’utilizzo di dosi sub-terapeutiche di antidepressivi oppure per periodi di tempo non adeguati, inferiori anche alle 4-6 settimane, in cui non è possibile valutare in modo corretto e completo l’azione terapeutica.

    Altra causa di pseudoresistenza può essere di tipo diagnostico, consistente nel mancato riconoscimento, da parte del medico, del sottotipo di disturbo depressivo.

    Occorre, infine, citare elementi di pseudoresistenza relativi al paziente quali, ad esempio, variabili farmacocinetiche individuali conseguenti a problemi di malassorbimento, mancato rispetto delle prescrizioni a causa di effetti collaterali mal tollerati, errori di assunzione della terapia, eventuale presenza di malattie organiche taciute allo specialista.

    Fattori di resistenza alla terapia antidepressiva

    Elementi predittivi di resistenza agli antidepressivi sono l’insorgenza in età precoce (adolescenziale o giovanile) o in tarda età, la familiarità per disturbi dell’umore, la gravità della sintomatologia (punteggi superiori a 25 nella scala di Hamilton) ed infine la cronicità del disturbo (durata superiore a due anni).

    Per quanto riguarda i diversi tipi di depressione, quella bipolare e la depressione con agitazione psicomotoria hanno elevata resistenza. La depressione psicotica non risponde adeguatamente ai soli antidepressivi, mentre trae beneficio dall’inserimento di neurolettici. Risposta sfavorevole si può avere anche nei disturbi affettivi stagionali, nella distimia e nella depressione doppia (distimia con sovrapposizione di episodi depressivi maggiori).

    Altro fattore di resistenza è la presenza, oltre ai sintomi depressivi, di abuso di sostanze, disturbi alimentari, disturbi da controllo degli impulsi e disturbi di personalità.

    L’efficacia del trattamento è inoltre compromessa dalla presenza di patologie organiche quali diabete, ipotiroidismo ed altri disturbi endocrini e metabolici, collagenopatie, neoplasie, infezioni, patologie neurologiche.

    Trattamento della depressione resistente

    Le contromisure da adottare nel caso di depressione resistente consistono in variazione della terapia in atto, sostituzione con un altro farmaco antidepressivo, combinazione di due o più antidepressivi ed infine la strategia di potenziamento con farmaci non primariamente antidepressivi.

    Variazione della terapia in atto

    Prima di variare la terapia in atto va tenuto presente che i tempi di latenza della risposta al farmaco possono essere più lunghi in pazienti che hanno avuto ripetuti episodi depressivi o con tratti patologici di personalità oppure negli anziani, in cui la risposta tardiva (7-8 settimane) può essere dovuta al ritardo nel raggiungimento del livello plasmatico terapeutico.

    Quando non si ottiene risposta completa al trattamento, il primo fattore da valutare è l’adeguamento della dose del farmaco: la mancata o scarsa risposta suggerisce la necessità dell’incremento, a condizione che non compaiano effetti collaterali non tollerabili dal paziente.

    Sostituzione con un altro farmaco

    La sostituzione può avvenire con un antidepressivo della stessa classe o con uno di classe diversa.

    Le strategie di sostituzione più utilizzate nella pratica clinica sono:

    1) Sostituzione di un SSRI con un altro SSRI

    Pazienti che non rispondono o sono intolleranti ad un SSRI possono rispondere positivamente ad un altro.

    2) Sostituzione di un SSRI con un TCA

    Sebbene negli ultimi anni i farmaci triciclici (TCA) siano poco usati, alcuni studi hanno evidenziato che, in caso di resistenza, la sostituzione di un SSRI con un TCA può rivelarsi utile.

    3) Sostituzione di un SSRI con venlafaxina o mirtazapina

    Diversi autori suggeriscono l’utilizzo della venlafaxina o della mirtazapina, che agiscono sulla serotonina e sulla noradrenalina, nei pazienti che non rispondono agli SSRI, che agiscono sulla sola serotonina.

    Combinazione di due o più farmaci

    La combinazione di più farmaci antidepressivi è in genere la terapia maggiormente utilizzata nella gestione della depressione resistente ed è finalizzata a migliorare la risposta. I vecchi clinici erano spesso contrari a combinare due antidepressivi per l’insorgenza di fenomeni collaterali fastidiosi. Gli antidepressivi più recenti, invece, sono più tollerati e, mediante il sinergismo d’azione, possono potenziare la loro azione al fine di ottenere una risposta migliore in pazienti resistenti.

    Potenziamento con farmaci non primariamente antidepressivi

    La strategia di potenziamento prevede l’impiego, in associazione all’antidepressivo prescritto inizialmente, di un altro farmaco non antidepressivo, allo scopo di potenziarne l’effetto. I vantaggi di tale strategia consistono nella possibilità di proseguire il trattamento con il farmaco iniziale, nella presenza di un’ampia esperienza clinica in

    letteratura rispetto alle altre strategie e nei tempi di risposta più brevi. Gli svantaggi sono invece costituiti da rischi più elevati d’interazione tra farmaci.

    La strategia di potenziamento più comunemente adottata è la prescrizione di Litio: molti studi hanno mostrato che, soprattutto nei casi di depressione bipolare, 600 mg/die o più di litio permettono di ottenere buoni risultati in pazienti resistenti a precedenti trattamenti con soli antidepressivi triciclici o SSRI.

    Bisogna comunque tenere presente il rischio di tossicità del litio. Una percentuale significativa di pazienti riporta fastidiosi effetti collaterali quali: nausea, vomito, sedazione, astenia, difficoltà di concentrazione, stitichezza, sudorazione, sete e diarrea. Raramente si registrano disturbi più seri quali confusione mentale, convulsione, ipertermia. A causa della necessità di monitorare frequentemente i livelli ematici e dell’aumento di peso, spesso la strategia di potenziamento con litio viene percepita negativamente dai pazienti.

    Un’altra strategia consiste nell’utilizzo di antipsicotici, in particolare del risperidone (0,5-2 mg/die) o dell’olanzapina (5-10 mg/die). Per le rapide proprietà ansiolitiche di tali farmaci, il loro utilizzo è particolarmente diffuso nei pazienti con agitazione e insonnia. I maggiori svantaggi sono il rischio di eccessiva sedazione e l’aumento di peso.

    Strategie di trattamento non farmacologico: terapia elettroconvulsivante (TEC)

    La terapia elettroconvulsivante, comunemente nota come elettroshock, consiste nel passaggio di una corrente elettrica, mediante elettrodi, attraverso il cervello del paziente in condizione di anestesia generale. La terapia fu introdotta e sviluppata negli anni ’30 dai neurologi italiani Ugo Cerletti e Lucio Bini. Non si conosce con certezza quale sia il meccanismo di azione: si pensa che la corrente elettrica determini una variazione dei neurotrasmettitori cerebrali tale da ottenere un miglioramento dei sintomi depressivi. L’effettiva utilità ed opportunità di questa tecnica è tutt’oggi molto dibattuta. Ha comunemente fama negativa presso parte dell’opinione pubblica a causa dell’abuso che ne è stato fatto e anche dell’eccessiva politicizzazione.

    La TEC è comunque da prendere in esame esclusivamente nei casi di refrattarietà assoluta alla terapia farmacologica, quando il paziente non trae alcun tipo di miglioramento dall’utilizzo degli antidepressivi in tutte le combinazioni possibili ed ha quindi le caratteristiche di trattamento “da ultima spiaggia”.

    Lo psichiatra e la cura della depressione

    La prima visita

    Immaginiamo un paziente che soffra di un disturbo depressivo di gravità media e descriviamo l’iter della sua consulenza psichiatrica.

    Nel corso della prima visita racconta la sua storia personale, descrive i sintomi di cui soffre, l’evoluzione dalla loro prima comparsa e le interferenze che determinano nella sua vita lavorativa e relazionale.

    Lo psichiatra formula la diagnosi sulla base delle informazioni ottenute e delle sue valutazioni cliniche e fornisce le indicazioni terapeutiche.

    L’osservazione clinica dimostra che lo stesso prodotto, alla stessa dose, può dare risultati diversi in relazione alla modalità di porsi del paziente nei confronti del disturbo, spesso influenzata da pregiudizi, da aspettative irrealistiche o dal rifiuto della malattia. E’ quindi importante che il paziente abbia un atteggiamento corretto nei confronti del disturbo e della terapia: fornire tutte le informazioni utili per ottenere la sua collaborazione al trattamento si traduce in una più rapida risoluzione dell’episodio.

    Le cose che ogni paziente deve sapere sono le seguenti.

    E’ opportuno sottolineare innanzitutto la natura medica della situazione in cui si trova, fornendo una diagnosi chiara, precisa e certa.

    Sottolineare la natura di malattia della depressione è utile per arginare i sentimenti di colpa e per generare la consapevolezza che qualcosa di estraneo, il disturbo depressivo, condiziona l’attuale stile di vita.

    E’ anche importante sottolineare che la malattia non è superabile mediante la volontà, ma è necessario un aiuto. Tale informazione serve per contrastare uno dei più diffusi pregiudizi riguardanti la depressione e cioè che, se solo il paziente lo volesse, potrebbe superare la crisi. Ciò non solo è falso, ma anche controproducente in quanto accentua i sensi di colpa già presenti a causa del disturbo depressivo.

    Altro aspetto che va discusso è relativo al periodo di assunzione della terapia. Di solito l’atteggiamento del paziente nei confronti degli psicofarmaci è influenzato da molti pregiudizi e l’aspettativa di un effetto miracoloso si alterna al timore di restarne dipendente. Nella realtà clinica la terapia antidepressiva ha di solito una durata di 6-8 mesi: deve, quindi, essere assunta per un periodo limitato.

    L’importanza di parlare di ciò con il paziente ha lo scopo di ridurre il timore della dipendenza, dal momento che la sospensione dei farmaci è programmata, e di aumentare la sua collaborazione nella corretta assunzione della terapia.

    E’ inoltre opportuno fornire informazioni in merito ai fenomeni collaterali.

    Gli antidepressivi oggi usati, in particolare gli SSRI, hanno il vantaggio di avere un elevato grado di tollerabilità con scarsi fenomeni collaterali, di solito inappetenza, nausea, modesta sonnolenza, limitati ai primi 7-8 giorni di terapia.

    Spesso informazioni parziali o errate determinano fantasie di gravi effetti collaterali, tali da impedire lo svolgimento delle normali attività giornaliere: al paziente va chiarito che gli antidepressivi lasciano integro il livello della coscienza e consentono di svolgere regolarmente il proprio lavoro

    Durante la prima visita psichiatrica è anche importante segnalare la presenza del cosiddetto “periodo di latenza”. Tra l’inizio dell’assunzione della terapia e il momento in cui il paziente inizia ad avvertire i primi benefici, cioè la riduzione dei sintomi depressivi, intercorre un periodo di tre-quattro settimane. Ciò è conseguente alla complessità del nostro encefalo, che è costituito da oltre 100 miliardi di cellule nervose, ognuna delle quali è collegata alle altre mediante centinaia di sinapsi, dove sono collocati i neurotrasmettitori cerebrali.

    L’azione degli antidepressivi si esplica determinando l’aumento della quantità di neurotrasmettitori che le cellule hanno a disposizione: ad un loro aumento corrisponde un innalzamento del tono dell’umore. Il numero molto elevato dei luoghi di azione dei farmaci spiega il motivo del “periodo di latenza”.

    Fornire tali informazioni ha lo scopo di evitare lo scoraggiamento conseguente al fatto di non vedere ‘risultati’ immediati.

    I primi miglioramenti saranno intorno al 20% rispetto alla condizione iniziale. Si tratterà, quindi, di un miglioramento di entità tale da essere avvertito a livello soggettivo e il giovamento consisterà non solo nella riduzione dei sintomi, ma anche nell’aumento di fiducia nell’efficacia della cura.

    E’ anche importante chiarire al paziente che i farmaci, dal momento che agiscono per via biochimica, svolgono la loro azione indipendentemente dalle cause che hanno determinato la crisi depressiva.

    E’ inoltre importante fornire rassicurazioni, ove naturalmente ciò corrisponda al vero, circa la lieve entità del disturbo. Di solito il paziente ha la convinzione di soffrire di una forma molto grave, mentre i disturbi d’ansia e quelli del tono dell’umore non rivestono la gravità, ad esempio, dei disturbi dell’area psicotica.

    E’ importante, infine, dare al paziente la disponibilità telefonica nel caso in cui dovessero insorgere problemi. Ciò gli dà sicurezza durante le fasi iniziali della terapia, che sono quelle emotivamente più impegnative.

    Si dà infine appuntamento a distanza di 6-8 settimane per la valutazione dei miglioramenti.

    Il primo controllo

    Il primo controllo serve per valutare il miglioramento ottenuto. La valutazione si basa sull’osservazione del medico, sul vissuto soggettivo del paziente, su quanto riferito da chi vive con lui e sulla riduzione dell’interferenza dei sintomi nella vita sociale, affettiva e lavorativa.

    Va tenuto presente che la percentuale del miglioramento in alcuni pazienti sarà del 10%, mentre in altri può arrivare anche al 40% rispetto all’inizio della cura.

    Da tale valutazione dipende la variazione della dose dell’antidepressivo: dalla dose minima prescritta per il primo periodo si sale ad un livello medio o pieno.

    A seconda delle cause che hanno determinato la crisi depressiva e a seconda della tipologia del paziente, può essere consigliato un trattamento psicologico.

    Ad esempio, se la causa prevalente del disagio è da ricercarsi nella presenza d’insicurezze personali o nello scarso livello di autostima, viene fornita l’indicazione di psicoterapia individuale.

    Il controllo successivo è fissato a distanza di due mesi.

    Il secondo controllo

    Il secondo controllo, a distanza di circa quattro mesi dall’inizio della cura, ha lo scopo di valutare il raggiungimento degli obiettivi della terapia farmacologica ed è lecito attendersi la scomparsa dei sintomi della serie depressiva ed ansiosa. Viene anche fatta la valutazione dell’andamento del percorso psicologico eventualmente intrapreso. Nel caso di scomparsa dei sintomi, s’inizia a ridurre la dose dei farmaci, fornendo rassicurazioni sul fatto che ciò non determinerà la ripresa dei sintomi.

    Si tratta di un timore che, con l’inizio della riduzione, è costantemente presente, ma che va superato: la riduzione è graduale e controllata e comunque, dopo che i farmaci hanno svolto il loro compito, vanno progressivamente sospesi. Si fissa un altro controllo a distanza di due mesi.

    Il terzo controllo

    Scopo del terzo controllo, dopo circa 6 mesi dall’inizio della terapia, è di valutare che i miglioramenti ottenuti si siano mantenuti stabili e che la prima riduzione della dose non abbia determinato alcuna conseguenza negativa.

    Verificato ciò, si dà indicazione di un’ulteriore riduzione, passando di solito ad un dosaggio non più terapeutico, ma di mantenimento.

    Si fissa quindi un altro controllo a distanza di altri due mesi.

    L’ultimo controllo

    Si fa la valutazione della completa regressione dei sintomi e del pieno recupero del benessere psichico e si forniscono al paziente le indicazioni di progressiva ulteriore riduzione della terapia fino alla sospensione.

    L’ultimo controllo completa quindi le tappe della consulenza psichiatrica.