• Centro Depressione Ansia e Attacchi di Panico - Corso Marconi 2 (ang. Via Nizza)
  • 011.6699693
  • centdep@tiscali.it
  • La storia di Luisa è esemplare di un disturbo che interessa il 33% della popolazione giovanile di età compresa tra i 18 e i 25 anni.
    Si tratta del Disturbo da Attacchi di Panico che, pur non essendo grave nella gerarchia dei disturbi psichiatrici, peggiora notevolmente la qualità della vita di chi ne soffre e può comportare delle limitazioni significative. La strategia terapeutica è consistita inizialmente nell’uso dei farmaci e successivamente in un’indicazione psicoterapeutica.
    Luisa è una ragazza di 23 anni, studentessa universitaria dell’ultimo anno del corso di laurea in fisica. Le mancano solo due esami e la tesi per completare il suo percorso, ma da circa un anno non riesce più a concentrarsi nello studio, non ha più sostenuto alcun esame e non riesce ad occuparsi della raccolta del materiale necessario alla compilazione della tesi di laurea, di cui ha già scelto argomento e relatore.
    Viene la prima volta al Centro accompagnata dai genitori. Il padre è un ingegnere elettronico e gestisce in proprio una società che si occupa di programmazione di reti di computer per grandi aziende.
    La madre insegna matematica alle scuole medie. Non ha fratelli né sorelle.

    Durante il nostro primo incontro, Luisa descrive la sua sintomatologia. Dice di avere avvertito i primi disturbi subito dopo il conseguimento della maturità scientifica. Concluso il liceo con la votazione di 60/60, a coronamento di una brillante carriera scolastica, si era concessa una vacanza premio con due amiche al mare, in Calabria. Dovevano raggiungere altri amici, partiti qualche giorno prima, per trascorrere insieme tre settimane in campeggio.
    Durante quel periodo Luisa prova uno strano stato di malessere. Un pomeriggio, in modo improvviso e non imputabile ad alcun evento particolare, avverte l’improvvisa accelerazione dei battiti cardiaci ed uno strano calore che parte dallo stomaco e s’irradia verso l’alto, provocandole un senso di soffocamento. Il tutto avviene in modo repentino, mentre stanno tornando dalla spiaggia
    alla tenda del campeggio. In quella circostanza sente il pericolo di perdere i sensi e viene soccorsa da una delle due amiche.
    Il medico del campeggio la visita e non riscontra alcuna patologia fisica, diagnosticando un eccesso di esposizione al sole.
    Per i due o tre giorni successivi avverte un senso di stanchezza, di stordimento e soprattutto di paura che l’episodio possa ripresentarsi. Poi, poco per volta, si riprende e prosegue il periodo di vacanza. Al ritorno a Torino, si sottopone ad una serie di esami ematici di routine, che non evidenziano dati patologici. Rassicurata da ciò, dimentica il tutto.
    S’iscrive quindi al primo anno di fisica e inizia la sua carriera universitaria riportando anche in questo ambito, durante il primo anno, i successi della scuola media superiore.
    Durante il periodo natalizio dell’anno successivo, al termine di una giornata trascorsa sulle piste da sci, avverte nuovamente quello strano senso di calore nella zona dello stomaco, il senso di soffocamento e l’improvviso aumento dei battiti cardiaci. Si tratta dello stesso tipo di sintomi del primo episodio, ma questa volta sono più intensi ed accompagnati da un’ansia molto più forte e da una sensazione di morte imminente.
    Il tutto ha una durata di pochi minuti e non perde i sensi, anche se questa é la sensazione. Viene comunque accompagnata al Pronto Soccorso, le vengono fatti gli esami di controllo ematici e l’elettrocardiogramma, risultati negativi. Viene diagnosticata una crisi ipotensiva e le vengono date indicazioni di effettuare, al suo ritorno a Torino, le prove di carico glicemico, in quanto all’origine di tutto era ipotizzabile un problema legato al livello della glicemia nel sangue.
    Anche questo tipo di esame dà esito negativo.

    Nel giro di circa dieci giorni anche questo episodio viene dimenticato e Luisa torna alla sua attività di studentessa.
    Parallelamente agli studi inizia a frequentare una scuola di danza e un corso serale di pittura su ceramica: fin da piccola le piaceva molto ballare e disegnare, ma non aveva mai potuto dedicare molto tempo a queste attività.
    Le cose precipitano a metà del terzo anno di università. Si sono da poco conclusi gli esami della sessione primaverile relativi al primo semestre, superati con la solita media altissima, quando, ancora una volta in modo assolutamente inatteso, mentre passeggia con un’amica in un parco cittadino, inizia ad avvertire un senso di vertigine che si accentua progressivamente fino a costringerla a sedersi su una panchina. Poco dopo inizia ad avvertire tremori, prima alle mani e poi estesi a tutto il corpo, un senso di freddo ai piedi e alle gambe, l’accelerazione dei battiti cardiaci. Di nuovo, poi, quella strana sensazione di calore nella zona dello stomaco, il senso di soffocamento e la sensazione di morte imminente.
    L’amica, spaventata nel vederla così sofferente, cerea in viso e tremante, l’accompagna al Pronto Soccorso. Gli esami del sangue e l’elettrocardiogramma risultano di nuovo negativi. Da una rapida raccolta dei dati anamnestici emerge che la madre ha sofferto, in gioventù, di crisi di allergia al polline. Anche Luisa, da bambina, aveva manifestato problemi di tipo analogo, anche se di modesta entità. Viene quindi avanzata l’ipotesi diagnostica di una crisi allergica e viene data indicazione di approfondire questo aspetto attraverso le prove allergometriche.
    Viene quindi dimessa dopo somministrazione di alcune gocce di un ansiolitico e le viene detto di rivolgersi al suo medico di base.
    L’allergologo consultato, dopo la visita e gli esami praticati, esclude la presenza di problemi allergici.
    Nelle settimane successive Luisa non presenta alcuna crisi simile alle precedenti, ma persistono fastidiose vertigini che riducono notevolmente la sua possibilità di movimento.
    Viene pertanto consultato un otorinolaringoiatra che la visita e le indica alcuni esami specialistici, alla ricerca delle cause delle vertigini. Anche questi danno esito negativo.
    Il medico di base avanza allora l’ipotesi che, all’origine di tutto, vi sia uno stato ansioso e le prescrive ricostituenti e ansiolitici che assumerà per qualche mese.
    Nel giro di circa dieci giorni i sintomi regrediscono.

    Le crisi precedenti lasciano però dei segni: ha difficoltà ad attraversare le piazze o a stare da sola in spazi vuoti. In tali circostanze avverte una sorta di irrequietezza, che si trasforma in ansia se non fugge da quella situazione. Ciò si verifica, comunque, esclusivamente se è sola. In compagnia di qualcuno, amica, amico o familiare, quelle situazioni non le creano alcun problema. Si tratta comunque di una limitazione cui si adatta senza particolari difficoltà.
    Luisa riprende normalmente le sue attività: lo studio, la danza, la pittura. Soprattutto gli esami universitari procedono molto bene e si distingue rispetto ai compagni del proprio corso.
    Ormai prossima a sostenere il penultimo esame, mentre è al cinema con il suo ragazzo, ancora una volta in modo inatteso e imprevedibile, una nuova crisi, che lei descrive come la più violenta di tutte: tachicardia, difficoltà respiratorie, senso di soffocamento, il senso di calore allo stomaco, l’impulso irrefrenabile a uscire dalla sala di proiezione. Ha avvertito in modo più intenso rispetto alle crisi precedenti il senso di morte imminente. Appena fuori dal cinema, le gambe le cedono e cade a terra. Interviene un’autoambulanza e viene portata al Pronto Soccorso. Soliti esami e solito risultato: non viene riscontrata alcuna patologia organica. Viene dimessa con diagnosi di crisi acuta d’ansia e le viene data indicazione di consulenza psichiatrica.
    Questa non verrà comunque effettuata per circa un anno, trascorso alla ricerca di una cura naturale, prima a base di prodotti erboristici e poi omeopatici.
    Nessuno dei rimedi messi in atto si mostra efficace, se non transitoriamente.

    L’ultima crisi ha lasciato delle conseguenze serie: adesso non riesce ad attraversare spazi aperti neanche in compagnia e si è aggiunta un’altra pesante limitazione, quella degli spazi chiusi.
    Non solo i cinema, ma in generale i luoghi chiusi e affollati quali negozi, supermercati, ristoranti, vengono accuratamente evitati, nel timore che possa nuovamente presentarsi una crisi.
    Luisa mette cioè in atto dei comportamenti di evitamento che limitano sempre di più la propria autonomia e possibilità di movimento. Interrompe la frequenza dell’università, non riesce più a guidare l’automobile, non esce più con le amiche e interrompe la relazione con il ragazzo. Poco per volta cominciano a rendersi manifesti i sintomi della serie depressiva: senso di spossatezza, frequenti crisi di pianto, risveglio mattutino precoce e angosciante, senso di inutilità e, soprattutto, un netto calo dell’attenzione, concentrazione e memoria che le impediscono lo studio e la preparazione degli esami.
    Da circa sei mesi si sono inoltre presentati sintomi nuovi e particolarmente dolorosi: è molto forte la paura che prova nei confronti degli oggetti appuntiti, particolarmente i coltelli, perché teme di perdere il controllo e ferirsi o colpire i genitori.
    Dopo circa sette mesi di malessere profondo viene anche tentata la via psicologica: tramite il medico di base, i familiari si rivolgono ad una psicoterapeuta, con la quale Luisa effettua delle sedute settimanali per circa due mesi. Le interrompe perché recarsi presso lo studio della psicoterapeuta le impone uno sforzo enorme e anche perché la cura non le porta giovamenti apprezzabili.
    Devono però trascorrere ancora cinque mesi prima di venire a consulto presso il Centro.

    Entrambi i genitori intervengono poco durante il suo racconto, se non per fare alcune precisazioni circa le date del susseguirsi degli eventi. Confermano lo stato di prostrazione nel quale la figlia è sprofondata, del resto evidente, così come evidente è anche la loro sofferenza e il vissuto d’impotenza.
    L’ultimo anno è stato molto pesante per tutti e tre e, ciò che è peggio, la speranza di uscire da quella situazione si è progressivamente ridotta.
    Inizio il mio intervento dicendo che la diagnosi è chiara e non lascia alcun margine di dubbio: si tratta di un Disturbo da Attacchi di Panico per la cui cura siamo in possesso di strumenti efficaci.
    Il problema è consistito nel fatto che tale diagnosi, in passato, non era stata fatta (anche perché è la prima volta che viene consultato uno specialista): sono state poste altre ipotesi diagnostiche e, di conseguenza, non è stata impostata una corretta strategia terapeutica.
    Faccio la precedente affermazione categorica perché dare un nome preciso ad uno stato di malessere, poterlo collocare in una categoria nota, riduce il senso di mistero e di impotenza in cui si trova chi soffre e accende qualche barlume di speranza e di fiducia.
    Affermo inoltre che, con i farmaci di cui disponiamo, possiamo ragionevolmente pensare di ottenere un parziale miglioramento dei sintomi già entro quattro/sei settimane dall’inizio della cura ed è quello che andremo insieme a verificare.
    Dal punto di vista farmacologico, faccio la prescrizione di un blando ansiolitico, a basso dosaggio, e di un antidepressivo del gruppo SSRI. Per quanto riguarda quest’ultimo, fornisco l’indicazione di assumerne una dose molto bassa per i primi sei giorni e il minimo della dose terapeutica dal settimo giorno in avanti.
    Spiego che la sottodose iniziale serve per il progressivo riconoscimento del farmaco da parte dell’organismo, onde favorire un adattamento graduale. Inoltre, dal momento che possono manifestarsi inappetenza e nausea, essendo la dose molto bassa, gli eventuali fenomeni collaterali saranno ridotti. Sottolineo comunque che, anche nel caso di una loro comparsa, sono transitori e durano non più di dieci giorni.
    Spiego che il meccanismo di azione dell’SSRI prescritto consiste nel determinare l’aumento della quantità di serotonina a livello delle cellule nervose e a ciò corrisponderà un miglioramento della sintomatologia depressiva e degli attacchi di panico.
    Dal momento però che noi abbiamo circa 100 miliardi di cellule nervose, non dobbiamo aspettarci alcun tipo di risposta per almeno due settimane.
    La valutazione dell’efficacia della terapia deve essere effettuata dopo circa un mese dall’inizio dell’assunzione. Preciso che, sulla base della mia esperienza clinica, mi aspetto un miglioramento di un 15-20%, comunque da Luisa chiaramente percepibile a livello soggettivo. Un risultato inferiore non è da ritenere soddisfacente.
    Per quanto riguarda il discorso generale di come affrontare il disturbo di cui Luisa soffre, preciso che lo strumento farmacologico è solo uno degli strumenti che è necessario mettere in campo, anche se per il momento è il principale.
    Sottolineo che i farmaci determineranno il miglioramento dei sintomi attraverso un meccanismo puramente biochimico, attraverso cioè l’aumento della serotonina cerebrale. Per farmi capire meglio, uso la metafora del mal di denti e dell’antidolorifico: è vero che quest’ultimo riduce il dolore, ma è altrettanto vero che non agisce sulle cause che lo hanno determinato. Allo stesso modo l’antidepressivo agirà sui sintomi della depressione, ma nulla potrà sulle cause.
    La strategia di intervento, finalizzata non solo alla risoluzione dell’episodio acuto, ma anche a ridurre il pericolo di recidive per il futuro, deve anche prevedere la messa in atto di strumenti il cui scopo è di rimuovere le cause che stanno all’origine dell’attuale disturbo.
    Faccio quindi un breve riferimento alla psicoterapia. Luisa mi aveva detto di avere tentato anche questa strada per circa due mesi e che poi l’aveva abbandonata.
    Affermo che, a mio avviso, l’errore era stato quello di utilizzare lo strumento psicologico fuori tempo. Quando i sintomi sono così accentuati, quando cioè è in atto una fase acuta, è urgente un intervento che li riduca nel più breve tempo possibile e l’unico strumento in grado di fare ciò è lo strumento farmacologico, fermo restando che “il più breve tempo possibile” equivale a settimane.
    La psicoterapia non può portare a questo risultato perché non è uno strumento ad “azione rapida”. Non solo, ma essa necessita della collaborazione attiva del paziente, che nella fase acuta è totalmente preda della violenza dei disturbi.
    Iniziare un lavoro psicologico nella fase acuta comporta il rischio di caricare il lavoro psicoterapeutico di aspettative impossibili (rapido miglioramento dei sintomi), tanto da andare incontro a delusione e determinare l’abbandono di uno strumento che, se usato nei tempi giusti, si rivelerà molto efficace.
    In definitiva, la strategia terapeutica che propongo a Luisa e ai familiari è la seguente: inizialmente una terapia farmacologica, a basso dosaggio, con lo scopo di ridurre i sintomi nel giro di qualche settimana. Quando il miglioramento sarà chiaramente percepito a livello soggettivo propongo di prendere in considerazione lo strumento psicologico, con lo scopo di individuare le cause che hanno determinato l’insorgenza dei disturbi fin dall’età di 19 anni.
    Concludo il mio intervento dando loro la disponibilità telefonica per l’eventuale insorgenza di problemi nell’assunzione dei farmaci e fissiamo il successivo appuntamento a distanza di circa un mese.
    Dopo cinque settimane, come succede in circa il 90% dei casi, Luisa sta meglio e i familiari sono più sollevati. Dice di avere avvertito già dopo pochi giorni il miglioramento dell’ansia e ciò è a mio avviso dovuto in parte all’ansiolitico, il cui effetto è veloce, in parte al fatto che si è sentita rassicurata dalle mie affermazioni.
    Dopo due settimane ha iniziato ad avvertire miglioramenti dei sintomi della serie depressiva: non sono più presenti le crisi di pianto, il ritmo veglia-sonno è più regolare, la spossatezza si è ridotta. Le sembra anche che sia un po’ migliorata la capacità di attenzione e concentrazione, anche se non ha ripreso a studiare. Ha però iniziato a leggere un romanzo.
    La paura degli oggetti appuntiti è completamente scomparsa.

    La settimana prima ha ripreso ad uscire, accompagnata dalla madre: è andata discretamente.
    Chiedo a lei e ai familiari una loro valutazione della percentuale di miglioramento ottenuta dall’inizio della terapia e la loro valutazione, che mi trova d’accordo, è intorno al 20%.
    Il valore non è molto alto ma, dopo solo un mese di terapia, è da ritenersi soddisfacente sia perché si è ridotto il livello di sofferenza soggettiva sia perché si sono riaccesi quegli elementi di speranza che sembravano non essere presenti dopo tutti i mesi precedenti di sofferenza.
    Fornisco quindi l’indicazione di portare l’SSRI a dose piena per le successive otto settimane, fino al nostro prossimo incontro.
    Riprendiamo il discorso della psicoterapia. E’ d’accordo sul fatto che quella precedente è stata iniziata in un periodo poco favorevole, ma dice di non sentirsi ancora di prendere un impegno fisso di quel tipo.
    Le dico che, non trattandosi di un intervento d’urgenza, è meglio attendere che si senta pronta. Intanto consiglio a lei e ai familiari la lettura di alcuni libri che spiegano cosa è la psicoterapia di tipo psicodinamico (questa sarà la mia indicazione nel caso di Luisa) e quali sono i percorsi che essa propone. Ritengo infatti che, sia per l’intervento con i farmaci sia per quello psicologico, tanto maggiore è il numero delle informazioni di cui si è in possesso, tanto più ci si avvicina alla cura nel modo corretto, aumentandone l’efficacia.
    L’incontro successivo avviene dopo circa due mesi.

    Le cose vanno decisamente meglio. I sintomi sono quasi del tutto scomparsi. Persiste sporadicamente una lieve tachicardia, di breve durata e comunque tollerabile.
    Il suo livello di autonomia è decisamente buono, specie nell’ultimo mese. Ha ripreso a guidare l’auto, a frequentare le lezioni e anche a studiare. Progetta di sostenere gli ultimi due esami nella successiva sessione. Ha anche raccolto materiale per la tesi di laurea e ha già scritto i primi due capitoli. La settimana successiva ha l’appuntamento con il relatore per discuterne.
    Dal punto di vista farmacologico, le fornisco l’indicazione di ridurre la quantità di SSRI da quella attuale a una dose media per quattro settimane, per poi passare alla dose minima ancora per un mese.
    Accade quasi sempre, quando si danno indicazioni di riduzione della terapia, premessa della loro sospensione, di trovarsi di fronte a qualche titubanza da parte del paziente. E’ come se scattasse un ragionamento del tipo: “Prima stavo molto male. Ho preso i farmaci e sono stato prima meglio e poi bene. Adesso che devo sospenderli, ho paura di stare di nuovo male”.
    Anche in Luisa è presente questo tipo di preoccupazione. La rassicuro dicendo che si tratta di una riduzione lenta e graduale, comunque sotto controllo. Le garantisco che non è assolutamente vero che ad una riduzione della terapia debba corrispondere una ripresa dei disturbi. Siccome è stata così male, capisco che sia presente la paura, ma lei stessa avrà modo di verificare che la riduzione non
    provocherà alcuna conseguenza. Restiamo comunque intesi che, nel caso dovessero insorgere problemi di qualsiasi tipo, mi avrebbe contattato.
    Dice di avere letto i libri che le ho consigliato, di essere disponibile a iniziare un lavoro di tipo psicologico e chiede di segnalarle il nominativo di una psicoterapeuta del Centro (preferisce una donna).

    L’incontro successivo avviene a distanza di circa due mesi (cinque dall’inizio del trattamento). Come le avevo preannunciato, la riduzione della terapia è avvenuta senza alcuna conseguenza. Ha ormai ripreso normalmente tutte le sue precedenti attività, ha da poco sostenuto uno dei due esami che le restavano e l’ultimo è in programma per il mese successivo. Il lavoro della tesi procede e ne è soddisfatta.
    Le dò indicazioni farmacologiche di passare dall’attuale dose minima a una dose di mantenimento ancora per due mesi. Questa volta Luisa accoglie le indicazioni un po’ meno timorosa.
    Mi dice di avere iniziato la psicoterapia con una frequenza settimanale: viene volentieri e si trova bene, a livello personale, con la dottoressa. Nei sette incontri avuti non sono emerse cose sconvolgenti e questo la rassicura perché temeva di trovare dentro di sé chissà quali terribili mostri. Complessivamente le sembra un lavoro con buone prospettive.
    Ci diamo appuntamento a distanza di altri due mesi circa.

    L’ultimo incontro con Luisa avviene dopo circa sette mesi e mezzo dall’inizio dell’assunzione di farmaci. Negli ultimi mesi ne assume solo una dose di mantenimento e dice che le è anche capitato, in qualche occasione, di dimenticarsene.
    Le rispondo che ciò non è successo nei primi mesi di terapia perché i sintomi erano presenti e non era ancora sicura di potersi riprendere. Tutto sommato quindi le saltuarie dimenticanze sono un buon segno e incoraggiano al passaggio successivo, cioè la sospensione totale della terapia assunta. Le indico quindi la scaletta da seguire per raggiungere tale scopo.
    Dice che intanto prosegue il lavoro di ricerca psicologica e, durante le sedute fatte nelle ultime settimane, sono emerse delle tematiche sicuramente da approfondire, che le sembrano molto importanti. Se fossero confermate dal lavoro successivo, darebbero un senso alle sue crisi, fino a quel momento assolutamente inspiegabili e prive di significato.
    Ne fa un breve cenno.

    Il nodo centrale sembra essere quello della scelta della facoltà universitaria e di conseguenza dell’impostazione in generale della sua vita. Non si era resa conto, all’epoca, che non si era trattata di una scelta autentica, ma era stata fatta più per gratificare i suoi genitori, un ingegnere e una
    matematica, che per un suo reale interesse. Di fatto, alle scuole medie superiori, eccelleva in tutte la materie, sia letterarie sia scientifiche, ma da sempre era più interessata alle prime. Non si era però concessa di scegliere un corso di laurea di tipo letterario per non mettersi in posizione di scontro con i genitori. Già al primo anno di fisica si era resa conto di non avere centrato la scelta della facoltà. Le sue capacità intellettive le hanno consentito di raggiungere ottimi risultati, a costo però di reprimere scelte forse più consone alla sua personalità e ai suoi bisogni. Le emozioni negate e represse hanno determinato, negli anni, una sorta di accumulo, fino a diventare una miscela esplosiva e manifestarsi per via sintomatologica attraverso le crisi.
    Luisa sente come vero questo tipo di lettura, che le consente di dare un senso a ciò che, all’inizio, appariva come inspiegabile e insensato.
    Sappiamo che, se si riesce a comprendere quello che succede non solo fuori, ma anche dentro di noi, ne deriva la riduzione della paura e la maturazione e l’ampliamento della personalità.
    Penso che Luisa sia sulla buona strada nel suo lavoro di ricerca psicologica. E’ probabile che nei prossimi mesi di lavoro psicoterapeutico scoprirà che il tradimento da parte della sua componente razionale nei confronti di quella emotiva abbia riguardato non solo la scelta universitaria, ma anche altri settori importanti della sua vita.
    Se così fosse, il riavvicinamento a tali componenti emotive le potrà consentire di raggiungere un livello di maggiore integrazione della personalità e di vivere in una condizione di equilibrio personale, preservandola dal ripetersi delle crisi di cui ha sofferto.