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  • Della storia di Eva e del nostro rapporto analitico ho ampiamente parlato nel libro “Eva e doc”.
    Ne racconto una breve sintesi perché si tratta di una storia in cui una condizione di forte malessere depressivo è stata affrontata senza l’utilizzo di alcun tipo di farmaco, ma unicamente della relazione analitica.
    La storia del rapporto analitico tra me e Eva comincia un giorno di ottobre del 1992, quando lei ha 28 anni, e si sviluppa in quasi cinque anni di incontri a frequenza bisettimanale.
    Eva ha fin dall’inizio tenuto un diario analitico ed è grazie a ciò che ho potuto disporre di una mole di materiale da cui selezionare contenuti, riflessioni, sogni, disegni.
    Non è stata un’impresa facile: tutto sembra importante, tutto appare essenziale perché tutto emotivamente carico.
    Dovendo in ogni caso compiere una scelta, ho deciso di avvalermi soprattutto delle considerazioni di Eva
    scritte tra una seduta e l’altra.
    Ho usato poi una serie di sogni, selezionati con la collaborazione della stessa Eva perché ritenuti i più indicativi di quanto man mano si muoveva in lei.
    Per quanto riguarda la scelta del nome dei protagonisti, si è scelto Eva perché questo nome fa riferimento
    ad una figura femminile primordiale.
    Per quanto riguarda me, ad un certo punto dell’analisi Eva ha iniziato a chiamarmi Doc (analista a denominazione d’origine controllata) e tale sono rimasto.
    Ecco la presentazione che Eva fa di se stessa.
    “Io nasco in un piccolo paese della Puglia, ultima di otto figli di cui sono viventi due fratelli e due sorelle.
    Mia madre è casalinga e mio padre gestisce in proprio, con l’aiuto dei due figli maschi, un’officina
    meccanica.
    Mi sono sempre chiesta se il mio concepimento fosse stato un incidente di percorso o se invece fu voluto:
    la prima delle due ipotesi mi è sempre apparsa la più probabile.
    Fin dalla nascita è evidente la presenza di un grave disturbo, la lussazione congenita dell’anca bilaterale: ne conseguono ripetuti ricoveri ospedalieri in luoghi anche distanti dal comune di residenza. Quando ho cinque anni la mia famiglia si trasferisce in provincia di Novara: qui frequenterò l’ultimo anno di scuola materna e la prima elementare.
    Di quel periodo gli unici ricordi che ho sono riferiti all’uso di tutori degli arti inferiori necessari per consentirmi la deambulazione.
    All’età di sette anni sono messa in collegio a Bologna: là resterò fino alla licenza media, tornando a
    casa solo in occasione delle vacanze scolastiche.
    I miei ricordi relativi agli anni di collegio si limitano a sporadici flash non collegabili tra loro.
    Ricordo di aver avuto una grande amica, di aver desiderato intensamente l’affetto di alcune insegnanti e di essere entrata, per tale motivo, in competizione con le compagne. Mi piaceva passeggiare nel parco e mi
    chiedevo come doveva essere la vita “fuori”. Ricordo inoltre che l’unica persona di sesso maschile presente
    entro le mura del collegio era il cappellano.
    In terza media comincio a fumare di nascosto. Il mio atteggiamento diventa ribelle e ostile nei confronti di alcune compagne e docenti tanto che le suore, preoccupate per il mio comportamento, chiedono un
    consulto presso una psicologa. Ho ritrovato, tra i documenti di mio padre, il referto che era stato rilasciato.
    Vi si dichiara che “la ragazza presenta problemi di rifiuto, atteggiamento oppositivo, conflitti e disadattamento legati a una percezione di rifiuto da parte dei genitori”.
    Inoltre si consigliava “ il ritorno in famiglia della bambina, affinché si dileguino i suoi timori di essere
    senza un profondo sostegno affettivo”.
    Sono convinta di dovere a questa diagnosi il mio rientro a casa. Sapevo, infatti, che mio padre intendeva farmi proseguire gli studi presso un altro collegio, a Firenze, e che già si era mosso in tal senso.
    Al momento del rientro in famiglia ho quindi tredici anni.
    Ritornando col pensiero a quel periodo, nella mia memoria vi è un duplice vuoto: uno relativo alla mia vita di collegio, di cui conservo pochissimi ricordi, l’altro relativo alla storia familiare fino il giorno del mio
    ritorno.
    Mio fratello maggiore e la mia unica sorella si erano nel frattempo sposati.
    Quell’estate ciò che resta della mia famiglia si trasferisce nel nuovo appartamento acquistato da mio padre. Già mi sento imposta, rafforzo tale convinzione a causa del dato concreto della mancanza di una stanza per me.
    Oggi dico: “Non so come le cose fossero andate in precedenza, ma al mio arrivo la situazione si fece tragica”.
    Il fidanzamento di uno dei miei fratelli era duramente ostacolato dai miei genitori. Liti e lunghi silenzi
    caratterizzarono i primi anni di permanenza in famiglia. Sono anni duri, segnati dal rancore verso i miei genitori.
    Intanto frequentavo l’Istituto Magistrale presso una scuola privata retta da suore. Un pulmino mi
    prelevava di mattino e mi riportava a casa la sera.
    Non ebbi mai il permesso di partecipare ai viaggi di istruzione organizzati dalla scuola perché i genitori non ne capivano l’utilità. In terza e quarta magistrale potrò partecipare, grazie all’insistenza delle suore,
    agli Esercizi Spirituali.
    Intorno ai quindici anni mi inserisco in un gruppo giovanile parrocchiale, dove svolgo attività di catechesi prima e di animazione poi. La partecipazione al gruppo mi consentiva di stare fuori di casa, anche
    se mia madre mi permetteva di recarmi solo se in compagnia di ragazze che abitavano nel vicinato. A volte,
    in occasione di riunioni serali, veniva lei stessa a prendermi (la distanza tra la casa e la parrocchia era di circa cinquecento metri).
    L’impegno nella comunità parrocchiale rimane costante anche dopo il conseguimento del Diploma di
    Maturità e per tutto il periodo degli studi universitari, che sfoceranno nel conseguimento della Laurea in
    Pedagogia.
    I quattro anni successivi alla laurea e precedenti l’inizio dell’analisi trascorrono dedicati al lavoro di educatrice e all’attività in parrocchia.
    All’interno della famiglia mi sembra di vivere sentimenti a duplice tonalità affettiva: da un lato creo
    forti legami con i fratelli fatti di “complicità” contro i genitori; dall’altro ritengo di non avere mai provato sentimenti positivi verso mio padre e mia madre.
    Bersaglio del mio rancore è soprattutto mia madre, vissuta come invadente, opprimente, intollerante, ricattatrice. Verso mio padre provo indifferenza. Egli non sembra avere un ruolo attivo nelle dinamiche
    familiari: nutro però il sospetto che in realtà sia lui a determinare i comportamenti materni.
    Mio padre, in casa, parla poco e la sua vita si svolge tra il lavoro e la cura dell’orto. Quando è presente, se ne sta sdraiato sul divano per ore e ore.
    Di quel periodo mi tornano in mente i violenti litigi in famiglia, cui assistevo, soprattutto nei primi tempi, impotente e spaventata. Mi pare di attribuire i comportamenti dei miei genitori alla loro provenienza
    geografica e culturale. Nasce in me il rifiuto di tutto ciò che ha sapore di “meridionalismo”. Ci sono momenti in cui mi vergogno dei miei genitori.
    Il bisogno di una figura materna positiva mi spinge a instaurare legami di dipendenza con una suora
    dell’Istituto Magistrale prima e dell’Asilo Parrocchiale poi.
    I rapporti con i coetanei sono ambivalenti: stringo amicizie con ragazze ma ignoro totalmente le attenzioni che mi sono rivolte dai ragazzi del gruppo.
    “Mi sembravano stupidi, piccoli, persi dietro cose senza valore e non in grado di offrirmi ciò di cui
    avevo bisogno”, dico ripensando a quel periodo.
    Le mie capacità organizzative e di animazione mi permettono comunque di ricoprire, all’interno del gruppo, un forte ruolo aggregante. Poco per volta divento l’interlocutrice privilegiata del sacerdote
    responsabile del gruppo stesso.
    Ho poco più di sedici anni. Lui molti di più. Me ne innamoro: inizio una storia che durerà fino al trasferimento di lui presso un’altra parrocchia. E’ una storia fatta di collaborazione nell’attività parrocchiale, di abbracci rubati, di sensi di colpa.
    Quasi senza soluzione di continuità avrò un’altra relazione con un secondo sacerdote, Elio, mio coetaneo.
    Questa relazione sarà molto più intensa, protratta nel tempo (circa sette anni), con ripetuti tentativi,
    sempre falliti, di porre fine a un rapporto che causava sofferenza a entrambi. Quando decidiamo di comune accordo di interrompere la relazione, mi fidanzo con un mio collega che da qualche tempo mostrava interesse per me. Frequento con lui il corso di preparazione al matrimonio, che però non sarà mai celebrato. Elio, infatti, non riesce ad accettare il distacco, ha uno scompenso psichico di tipo depressivo, effettua alcuni tentativi anticonservativi, è ricoverato in varie cliniche psichiatriche.
    In occasione di uno dei ricoveri di Elio, conoscerò Doc e, circa un anno dopo, gli telefonerò chiedendo di iniziare un lavoro analitico.
    In quel periodo Elio si apprestava a riprendere a celebrare Messa”.
    Eva quindi inizia il suo percorso analitico in condizioni di estrema sofferenza, di vuoto e di perdita di senso.
    Fin dalle prime battute, mi dice comunque di avere le idee chiare su cosa si aspetta dall’analisi e da me:
    vuole consapevolezza ed autonomia.
    Mi racconta la sua storia, mi parla di sé, della sua famiglia, di Elio e della fine del rapporto con lui, dice
    “mi aiuti a capire”.
    Se da un lato chiede di essere aiutata a comprendere, dall’altro è alla ricerca di qualcuno che riempia il suo vuoto.
    E’ arrivata da me dopo aver preso contatto con un altro terapeuta, dal quale è “fuggita” dopo il primo
    incontro perché questi le aveva dato l’impressione di avere già capito tutto di lei: problemi e soluzioni.
    Aveva vissuto questa esperienza come qualcosa di molto distante da ciò di cui aveva bisogno, come qualcosa di molto freddo, in netta contrapposizione con il suo bisogno di calore e di accoglimento.
    L’impressione è che il campo emotivo di Eva sia occupato pressoché totalmente da un bisogno di
    accettazione globale, totale, incondizionato. A tale bisogno si contrappone il vissuto di vuoto e di una solitudine desertica che le due esperienze precedenti, con Matteo e soprattutto con Elio, hanno accentuato, con conseguente aumento della sofferenza. Non riesce però a fermarsi e riflettere su queste dinamiche.
    E’ in una condizione di estremo bisogno, direi quasi di bisogno vorace, che Eva inizia il suo percorso analitico.
    Il suo bisogno evoca in me la risposta, mi viene da dire “soccorrevole”, che uno stato di intensa ed evidente sofferenza attiva e ciò determina nei suoi confronti un atteggiamento di accoglimento e di accettazione.
    D’altra parte però temo la distruttività del suo bisogno vorace. So che dovrò deluderla, man mano che aumenteranno le sue richieste nei miei confronti, ma questa consapevolezza non placa una mia inquietudine
    di fondo quando penso alla relazione analitica con Eva e al duro lavoro che ci aspetta.
    Dopo circa cinque mesi di analisi, Eva porta il seguente sogno:
    “Un grande salone, immenso e vuoto. Solo una panchina. Io parlo a lungo con un uomo (è come se gli raccontassi la mia intera vita). Sono in piedi davanti a lui: le mie ultime parole sono: “NON VOGLIO PIÙ ESSERE SOLA”. Appoggio la testa sul suo petto, lui mi abbraccia.
    Stiamo un po’ fermi così. Io sto piangendo. Lui si siede continuando ad abbracciarmi: mi fa sedere al suo fianco con la testa appoggiata sul suo petto. Inizio a piangere più forte. E’ il pianto di una bambina.
    Poi, improvvisamente, la mia testa non è più appoggiata sul suo petto ma sulla sua pancia che ora sembra essere quella di una donna incinta…”
    Ci dedichiamo al lavoro d’associazione.
    L’immagine del suo parlare a lungo con un uomo le fa affermare che in fondo è quello che cerca, in altre parole un uomo che ascolti la sua vita e poi la prenda così com’è.
    Con riferimento alle sue parole “Non voglio più essere sola” afferma che è questo il suo profondo bisogno, che la spinge alla ricerca di figure accoglienti e accettanti.
    Il suo appoggiare la testa sul petto dell’uomo le fa venire in mente la richiesta d’accettazione.
    Sento questo sogno come molto carico e cerco di fornire ad Eva qualche spunto di riflessione. Le dico che sembra essere una risposta da parte dell’inconscio al mio messaggio d’accettazione (l’uomo che
    l’abbraccia), e che il sogno sembra presentare un tipo di richiesta “materna” nel senso d’accettazione globale
    (il petto dell’uomo che diventa “ pancia gravida”).
    Prima di andarsene, Eva chiede di potere riavere il foglio su cui ha scritto il sogno, per poterlo rivedere con calma.
    Il giorno stesso della seduta scrive nel suo diario:
    “Un grande salone immenso e vuoto: riproduzione fotografica di come mi vivo. Un salone fa pensare a qualcosa di bello, finemente arredato, divani, tappeti, quadri, soprammobili… Il mio salone invece è vuoto! Struttura che racchiude il nulla. Sembra necessaria la percezione di questo vuoto, di questo nulla. Solo in esso prende voce il grido disperato di una vita: “Non voglio più essere sola”.
    Solitudine… malattia che invade e fa gridare dal dolore. Racconto la mia intera vita (la mia solitudine)
    all’uomo del sogno, a Doc. Lui si siede, mi fa sedere al suo fianco, con la testa sul suo petto. L’impressione è che basterebbe un niente, un piccolo gesto, anche casuale, e questo abbraccio potrebbe trasformarsi in amplesso…
    C’è grande tenerezza in questa immagine. E’ tenero quest’uomo che mi abbraccia, dando a questo gesto il significato di un accoglimento totale.
    Desidero fermarmi qui, in questa immagine sinonimo d’accettazione, protezione e sicurezza… il tutto chiesto a quest’uomo che si trasforma in una donna incinta…”

    Accetta di prendere in considerazione il suo materiale onirico e lo fa nei confronti di un sogno che sembra riprodurre, con toni molto carichi, il suo vissuto di vuoto interiore (immenso salone non arredato) e l’urgenza del bisogno di superamento dell’angoscia che tale vuoto determina.
    E’ quest’urgenza che la spinge alla ricerca di qualcuno che l’accolga, che contenga il suo dolore con un abbraccio. E’ un dolore antico e il suo pianto diventa quello di una bambina, mentre il petto dell’uomo
    diventa la pancia di una donna gravida.
    Eva sembra quindi spinta verso la ricerca di un’accettazione totale, si potrebbe dire di tipo fusionale, l’unica che sembri poter placare la sua “fame d’amore”…
    Man mano che procedono i nostri incontri, l’investimento da parte sua nei miei confronti diventa sempre
    più massiccio e il carico emotivo sempre più intenso.
    La Eva che è venuta da me per un lavoro d’analisi sembra assistere, quasi sorpresa e impotente, alla progressiva importanza che assume la mia persona per la sua parte dominata dal vuoto e dalla solitudine, che
    spinge unicamente verso la ricerca di qualcuno che possa placare l’angoscia.
    Ne deriva una sorta d’oscillazione Doc/Elio.
    Eva sembra a volte assorbita dal desiderio nostalgico del rapporto con Elio, di cui viene scotomizzata la parte relativa agli ultimi anni ed esaltata quella delle fasi iniziali.
    E’ però anche presente la consapevolezza dell’impossibilità di rendere concreto questo desiderio: Elio ha ripreso la sua funzione sacerdotale e la fuga nel passato si rivela sempre più illusoria.
    Del resto anche la sua richiesta nei miei confronti si scontra con i limiti della relazione analitica.
    La sommatoria derivante dall’impossibilità di un ritorno al passato e l’impossibilità del presente determina un potenziamento dell’angoscia, un vissuto di trappola, una sempre maggiore identificazione di Eva con il suo bisogno frustrato d’accoglimento totale.
    Nel marzo ’94 (dopo circa un anno e mezzo di analisi) Eva porta in seduta una fiaba che lei stessa ha scritto e che mi propone. L’ha intitolata “Metamorfosi (o morte di un aspirante cigno)”.
    “Una volta, non molto tempo fa, sulle sponde di un piccolo stagno, viveva una famiglia di anatre. Erano
    già in molti, ma mamma anatra decise che c’erano acqua, aria, e cibo sufficienti per altri piccoli anatrini:
    erano così belli e così dolci i suoi piccoli che averne altri sarebbe stata sicuramente una grande gioia per tutti gli abitanti dello stagno.
    Arrivò così il tempo della cova. Una ad una le uova si schiusero permettendo a molte paia di occhietti neri di affacciarsi all’azzurro dello stagno: un’immensità rispetto al piccolo e buio spazio dell’uovo. Erano tutti felici, gli anatrini: impararono a procurarsi il cibo, a nuotare, a ricevere tenerezze dalla loro mamma e
    a scambiarsi affettuosità tra loro. Tutto procedeva per il meglio.
    Poi arrivò quel tempo in cui tutti i piccoli di ogni specie escono dall’incoscienza e aprono la mente ai misteri della vita.
    Ogni piccolo anatrino imparò a riconoscersi e a distinguersi dagli altri, scoprì di essere un piccolo
    mondo in mezzo ad altri piccoli mondi di un grande universo. Ognuno fece l’inventario di ciò che la natura gli aveva messo a disposizione per conquistare il proprio posto al sole.
    Uno di loro scoprì di sapere volare più in alto di tutti: quella sua arte gli avrebbe procurato un posto
    nello stagno. Un altro si rese conto che nessuno era più veloce di lui nel nuoto: iniziò ad allenarsi per il suo futuro di campione.
    Nell’angolino più appartato dello stagno, rannicchiato su una pietra in modo da ricevere la propria immagine riflessa dall’acqua, se ne stava triste e sconsolato il più piccolo degli anatrini. Non sapeva da dove iniziare il suo inventario. Fino a poco tempo prima aveva creduto di essere come i suoi fratelli. Ma ben presto, grazie alla conquista della capacità di osservare e osservarsi, aveva dovuto riconoscere che qualcosa non stava andando per il verso giusto. Il suo modo di camminare, per esempio, era diverso da quello degli altri: non era solo questione di stile o di eleganza! Il suo scarso equilibrio e la tentennante stabilità delle sue zampette non gli permettevano di stare al passo con gli altri. Quando, tutti in fila, si recavano allo stagno, era sempre l’ultimo a tuffarsi. Inoltre nuotava male e non era in grado di volare.
    L’anatrino, guardando la sua immagine riflessa, si accorse di non essere neppure bello. Insomma: il suo foglio d’inventario rimaneva bianco, la matita giaceva inutilizzata sulla pietra al suo fianco.
    L’anatrino non s’arrese: “Forse non mi sto osservando nel modo esatto, forse non devo guardarmi
    nell’acqua per scoprire cosa scrivere sul foglio bianco”. Così chiuse gli occhi, cercò di guardarsi dentro, al di là delle sue piume e della sua carne. Si sentì ben presto invadere da una strana sensazione… nel profondo della sua anima c’era una grande quantità di, di… qualcosa che non sapeva definire. C’era un grande spazio vuoto.
    Si fermò a pensare, s’immerse in quel vuoto fino a quando non riuscì a dargli un nome: lo chiamò “bisogno d’amore”.
    Percorse molte strade, incontrò molti suoi simili, piccoli e grandi, ma lui continuava a sentirsi solo… un
    fantasma non visto.
    Forse lui non sapeva rendere palesi i suoi desideri, forse gli altri avevano il suo stesso problema… fatto sta che, tra ricerche e tentativi, il tempo passava.
    Arrivò quel periodo in cui gli anatrini si preparavano a divenire giovani: fu proprio allora che il piccolo
    credette di avere trovato tra i suoi simili colui che sarebbe stato in grado di vedere al di là delle sue piume e della sua carne. Si sentì rinascere, si sentì librare in volo, ad altezze vertiginose.
    Il suo compagno versava nella sua anima, goccia dopo goccia, l’elisir che fece restringere i margini del
    suo vuoto.
    Poi, all’improvviso, qualcosa cambiò. Forse il suo compagno, nel tentativo di riempire il suo vuoto, era rimasto egli stesso senza elisir o forse il vuoto dell’anatrino si era fatto, col passare del tempo, incolmabile.
    Il suo compagno si ammalò.
    Così, mentre nel frattempo i suoi fratelli erano diventati chi campione di nuoto, chi insegnante di volo, chi mamma o papà di nuovi anatrini, lui si ritrovò nuovamente solo.
    Assalito dalla nostalgia delle altezze vertiginose toccate nel suo pur breve volo, si rimise a cercare in
    giro per il mondo chi potesse ancora riempire il suo vuoto.
    Un giorno, in cui si sentiva più triste del solito, si guardò dentro, chiuse gli occhi e rimase sconvolto: la sua anima non esisteva più. Nel grande spazio vagavano piccoli infiniti frammenti. Riconobbe tra questi
    quelli della delusione, quelli dell’aggressività e della rabbia, vide i frammenti delle colpe, vide i buchi neri delle paure, le macchie oscure dell’angoscia. Si spaventò. Capì di non poter fare da solo.
    Si ricordò che aveva sentito parlare di certi suoi simili che, si diceva, sapevano ricostruire le anime frammentate dei piccoli anatrini come lui. Ne aveva anche visti alcuni: erano splendidi uccelli bianchi
    chiamati “cigni”. Ne scelse uno e si recò da lui. Gli raccontò del suo girovagare per il mondo, gli narrò dei suoi voli vertiginosi e delle sue cadute abissali, delle sue paure e delle sue angosce, ma soprattutto gli parlò del suo grande spazio vuoto. Fu un racconto molto lungo, fatto di tante parole e di altrettanti silenzi.
    L’anatrino però, a mano a mano che procedeva nel suo racconto, non si era accorto che il suo compagno cigno diventava, per la sua anima, più importante dell’aria che respirava. Pensò tra sé che proprio in lui,
    nel cigno, si trovava ciò che cercava da sempre.
    “Il cigno, con il suo amore, potrebbe riempire il mio vuoto”, pensò.
    L’anatrino, però, tutto questo proprio non ce la faceva a dirlo al cigno e inoltre c’erano tanti altri anatrini come lui che avevano scelto quello stesso cigno come proprio compagno.
    Il bisogno di avere il cigno solo per sé crebbe incontrollato. L’anatrino avrebbe voluto che il cigno lo
    stringesse tra le sue ali, che gli trasmettesse il calore del suo corpo, quel calore, lui lo sapeva, che gli avrebbe permesso di tornare a volare.
    Passò altro tempo. Poi, un giorno in cui lo stagno era spazzato da vento e neve, trovò il coraggio di rivelare al cigno ciò che provava per lui. Era impaurito, tremava. Cercò di farsi coraggio pensando che sicuramente il cigno aveva già letto nella sua anima ciò che ora lui cercava di trasformare in parole”.

    Quasi tutta la seduta trascorre nell’ascolto del racconto.
    E’ chiara la natura autobiografica e sono evidenti le analogie anatrino/Eva. C’è la malattia alla zampetta che evoca la malattia di Eva alle gambe, c’è la scoperta del vuoto interiore, c’è l’incontro con Elio e la fine del rapporto con lui, c’è l’incontro con Doc, il cigno: “Il cigno, con il suo amore, potrebbe riempire il mio vuoto”.
    E’ da me cigno-doc, che concretamente si aspetta che il suo vuoto sia riempito, che il suo bisogno d’amore sia saziato.
    Le comunico queste poche cose, senza entrare in merito a nessuno dei temi trattati, con il proposito di parlarne negli incontri successivi.
    Il mio commento è però vissuto male da Eva, come se volesse depotenziare la carica emotiva presente nel suo racconto.
    La sua delusione è palese e resto con la sensazione di essere riuscito a comunicarle soltanto che il
    racconto e i suoi contenuti potranno essere oggetto di lavoro analitico. Forse la sua aspettativa era che “il cigno la abbracciasse tra le sue ali”.
    Ha sul volto i segni della delusione e io ho l’impressione di avere perso un’occasione per un avvicinamento a lei.
    Nella seduta successiva non parlerà più del suo racconto.
    Porta uno scritto nel suo diario, che mi porge perché io possa leggerlo. Si intitola: “Decalogo del buon analista”:

    1- Il paziente, di qualunque sesso o età, è sempre una persona malata.

    2- Se tende a dimenticarsene, sta all’analista fare in modo che se ne ricordi.

    3- Spingere il paziente a prendere coscienza del suo stato emotivo e incoraggiarlo alla verbalizzazione.

    4- Ogni sua manifestazione emotiva è da considerarsi espressione della sua malattia.

    5- Se tale manifestazione emotiva dovesse presentarsi sotto forma di amore, sarà compito dell’analista ridurla alle originali infantili fantasie sessuali.

    6- Se la tecnica suggerita sopra non dovesse dare buoni risultati, procedere tenendo presente la problematica degli opposti.

    7- Opposto dell’odio è l’amore. Spingere il paziente a manifestarlo, stuzzicando la sua aggressività: è sempre preferibile avere a che fare con un paziente aggressivo che con un innamorato.

    8- Preoccupazioni e coinvolgimenti emotivi dell’analista non sono compresi nell’onorario. Se presenti, per funzionamento difettoso, non esulano dall’orario della seduta.

    9- Evitare qualsiasi contatto fisico con i pazienti: potrebbe contaminare. E’ consentita una frettolosa stretta di mano al momento del congedo.

    10- E’ vitale per l’analista rispettare i punti dall’1 al 9 .

    Ritorna l’aggressività.
    I miei tentativi di mettere in relazione la sua delusione della seduta precedente e l’origine del decalogo cadono nel vuoto.
    E’ di nuovo lontana. Un silenzio plumbeo occupa il resto della seduta. Il decalogo è un atto di accusa nei miei confronti: non sono disposto al coinvolgimento emotivo con lei, resto “arroccato” nel mio ruolo di
    analista, non sono disponibile a darle ciò di cui lei ha bisogno, ad abbracciarla “tra le mie ali”.
    Sono disponibile solo a “parlare” degli stati emotivi, ma non a viverli concretamente attraverso il contatto fisico (tranne una frettolosa stretta di mano al momento del congedo).
    Eva vive tutto ciò come un rifiuto che la relega al ruolo di “persona malata” così come “ogni espressione
    emotiva è da considerarsi espressione della malattia”.
    Mi ritrovo ad interrogarmi su quanto ciò sia espressione del bisogno di Eva di accoglimento totale, senza limiti, e quanto anche sia conseguente a un mio difetto di capacità di comunicazione empatica con lei, o a un mio difetto di accoglimento, quando Eva porta in seduta materiale emotivamente molto carico.
    E’ questo uno dei non rari periodi di crisi del lavoro e della relazione analitica.
    Le sedute di questo periodo sono caratterizzate dalla sua rabbia nei miei confronti, che si esprime soprattutto in lunghi silenzi e in pianti silenziosi. A volte la sua aggressività è più diretta. Scrive, ad esempio,
    in questo periodo sul suo diario:
    “Ritengo che la situazione analitica sia nel suo insieme un esempio di crudeltà pura e che l’analista, per essere tale, debba essere riuscito a sublimare una buona dose di sadismo. Così si spiega un metodo che
    prevede che il paziente sviluppi, nei confronti dell’analista, sentimenti, interessi, che però non devono essere
    vissuti ma sezionati. In questo sta la crudeltà: il paziente vive, con la massima intensità possibile, sentimenti di amore e di odio che comunque non sono in alcun modo consumabili ”.
    Commento quanto ha scritto dicendo che la sua osservazione mi trova in parte d’accordo. E’ vero che
    nell’ambito di una relazione analitica sono attivate spinte pulsionali che tendono naturalmente alla scarica e alla soddisfazione. Il lavoro analitico ha però come primaria l’urgenza della consapevolezza, nell’ambito di un modello con finalità terapeutiche.
    Sottolineo che è l’urgenza della soddisfazione immediata che sollecita la ribellione o la denuncia di aberrazioni del metodo, relativizzando il fine primario del lavoro analitico, che è quello della trasformazione
    tramite la consapevolezza.
    Ma le mie parole cadono nel vuoto e non sortiscono effetto alcuno. Per molte settimane le sedute sono cariche della sua aggressività: Eva si identifica con la sua parte che ha bisogno di essere accettata totalmente
    e concretamente, ma questa parte è “solo una parte”. Ce n’è però anche un’altra, quella più sana, che è in
    grado di riflettere, di prendere coscienza, che è in grado, cioè di crescere, ed è con questa parte che mi devo alleare.
    Fiducia nella sua presenza.
    Questa parte a volte sembra non esserci, ma a volte riesce a manifestare la propria presenza. Ad esempio Eva scrive sul suo diario, a seguito della stimolazione da parte di un sogno della notte precedente (siamo nel luglio 1994):
    “Un pensiero improvviso: ciò che vivo nei confronti di Doc riassume tutta la mia vita emotiva. Questa sera vivo questa affermazione come un’evidenza. Non è un pensiero, non è un’ipotesi: è pura evidenza!
    Tutta la vita spesa alla ricerca di un legame profondo che mi permettesse di dire: sono viva, amo. Sì. Un legame assoluto, totale, completo: così o niente.
    Conoscenze non approfondite, amicizie interrotte nella attesa di questo incontro fatale. Era quasi come se dicessi a me stessa: “Verrà il giorno in cui comincerai a vivere davvero: adesso cerca di sopravvivere come puoi, dopo vivrai”.
    Aspettare qualcuno per dirgli: “Fammi vivere”
    C’è in me questa forza che preme, che chiede soddisfazione.
    Ho trovato uno scoglio: Doc. Lui come Elio. La storia si ripete ma il finale è diverso.
    Una parte di me dice “per fortuna”; l’altra soffre come un animale in gabbia che non riesce ad afferrare il cibo al di là delle sbarre.
    Ha ragione Doc. E’ inutile affermare: “E’ tutto stupido”. Fosse stupido, non farebbe così male. So che
    per il mio bene è essenziale che Doc rimanga quello che è. Però mi sento persa. E’ quasi come essere più sola”.
    Un improvviso sprazzo di luce nelle tenebre: questa è la sensazione che mi provoca il sentire le
    riflessioni portate da Eva.
    Sono molto contento per quanto lei ha detto perché mi sembra un segnale prospetticamente positivo circa la possibilità di portare avanti il lavoro analitico, anche se è molto probabile che i movimenti regressivi non
    tarderanno a ripresentarsi.
    Le sedute successive si svolgono in un clima di serenità e collaborazione ed è ora possibile parlare dei suoi bisogni e di come, in passato, ha cercato di soddisfarli.
    Un momento importante del lavoro analitico avviene durante una seduta particolare del febbraio ’95,
    dopo circa due anni di lavoro analitico
    In apertura di seduta accenna ad un sogno di cui conserva solo un vago ricordo: doveva recarsi da un’analista donna per un’analisi che doveva cominciare in Puglia.
    Che è il suo luogo d’origine. Dopo avere raccontato il sogno, tace, come assorta in riflessioni che l’assorbono totalmente.
    Il silenzio che segue è diverso dai molti precedenti. Non avverto aggressività, né particolare angoscia. Sento di doverlo rispettare e attendere.
    Intanto le condizioni in cui si svolge il nostro incontro diventano particolari. La seduta è iniziata in
    un’ora del tardo pomeriggio in cui l’illuminazione era ancora sufficiente e per tale motivo la luce della stanza era ancora spenta. Nel giro di poco tempo, come succede nei pomeriggi d’inverno, la stanza resta avvolta nella semioscurità e questo, assieme al silenzio assoluto, conferisce all’incontro quel clima particolare cui accennavo prima.
    Ci veniamo così a trovare in una condizione che ha qualcosa d’irreale. Ad un certo punto dice:
    “Mi ha costretta… Mi rendo conto di aver chiesto sia a Elio sia a lei tutto: aiuto, guida, amore… Molti ruoli condensati nella stessa persona… Con il risultato di non prendere la mia vita nelle mie mani… Non c’è più spazio per la fantasia… La odio per avermi costretta a queste conclusioni… E’ tutto così scomodo, difficile… Mi sento contemporaneamente più ricca e più povera… E’ come se iniziassi a camminare da sola… Lei mi darà una mano, ma reggeranno le mie gambe?…” .
    Subito dopo la seduta Eva scrive nel suo diario:
    “Se avesse acceso la luce, lo avrei ucciso.
    Sensazione di essere in un posto oscuro, profondo, sconosciuto, ma non paura… pace… Sensazione, per la prima volta, di comunione con Doc…”
    Anch’io resto con la sensazione di un avvicinamento tra noi quale forse prima non c’era mai stato.
    Le condizioni un po’ irreali che si erano venute man mano creando nel corso di quest’incontro, il silenzio particolare, le cose che Eva ha detto e anche il suo tono di voce, fanno di quest’incontro uno dei momenti più significativi del rapporto con Eva e potrebbero segnare anche un punto di svolta del rapporto con se stessa.
    La durata di questa “pausa” è però di circa cinque mesi.
    Segue una nuova virata verso il basso del tono dell’umore. Eva è di nuovo lontana, chiusa nel suo dolore e nella sua solitudine. Quanto scrive nel suo diario, il 9/06/96, rende bene il suo stato d’animo attuale.
    “Lui non può capire. E’ una sofferenza incomunicabile e poiché tale incomprensibile anche a chi, forse,
    vorrebbe capire.
    Solitudine.
    Una madre ti dà la vita, quella corporea, materiale. Ma poi ti abbandona a te stessa. Ti ritrovi chiusa, sola, in un cerchio, sognando un sole che ti permetterà di usare i suoi raggi per tirartene fuori.
    Come può chi non ha mai provato cosa significhi essere UNITO, trarre da questa mancata unione
    originaria la forza per essere vivo?
    Se la fusione originaria è quella che permette poi all’individuo di formarsi come “essere uno” cosa succede a chi questo è stato negato? Fusione come passaggio obbligato. Fusione che presuppone
    accettazione globale di spirito e di corpo.
    Elio mi ha sempre amata e rifiutata contemporaneamente: voleva i miei pensieri ma non il mio corpo
    (Dio non lo permetteva).
    Andrea voleva il mio corpo ma non la mia realtà interiore. Doc rifiuta l’una e l’altro”.
    Nei giorni successivi si reca a Padova per sostenere un altro esame.
    Ne approfitta per fermarsi qualche giorno a Venezia, ospite di un’amica.
    In quell’occasione conosce Davide, un uomo divorziato e che ha da poco interrotto una relazione sentimentale che durava da molti anni.
    Davide la invita a cena e lei accetta. Trascorrono quindi insieme la serata. Nel nostro incontro successivo
    Eva fa un breve cenno a Davide, ma poi orienta il discorso su di noi e sul nostro rapporto.
    E’ ancora irritata per il mio rifiuto nei confronti della sua richiesta della tesi (uno dei molti tentativi messi in atto) e dice che questo ha nuovamente attivato un vissuto più generale di un mio rifiuto di lei come persona.
    Prendo atto della sua collera, ma specifico che ha fatto un’estensione, dalla tesi a tutta se stessa, che non sento in sintonia con il mio vissuto nei suoi confronti. Sottolineo l’importanza del rispetto delle regole del
    lavoro analitico, là dove una loro trasgressione può comportare il fallimento di tale lavoro, che è l’acquisizione della consapevolezza.
    Mi viene in mente una metafora del rapporto analitico: è come se si trattasse di una cornice all’interno della quale si svolgono tutta una serie di movimenti affettivi. La cornice ne è il contenitore, che deve restare integro, pena la dispersione dei contenuti e la vanificazione di una loro acquisizione di senso.
    La cornice è fatta di regole che non escludono la presenza di legami affettivi tra i due. La rassicuro sulla presenza in me di un legame affettivo nei suoi confronti, nel rispetto comunque della cornice, che sento salda e non in pericolo.
    Eva non ribatte nulla alle mie affermazioni, ma si vede che non ne è convinta. Segue l’interruzione per il periodo estivo (1995).
    La ripresa autunnale dei nostri incontri vede Eva impegnata ad affrontare una situazione nuova, quella
    con Davide. Durante il periodo estivo lui l’ha invitata a Venezia, dove lei è rimasta tre giorni. Davide ha specificato che il tutto doveva essere vissuto “per gioco”, lei aveva accettato. Dopo i tre giorni trascorsi assieme è però seguito un vissuto di perdita, la sensazione che il tutto sia stato solo una parentesi, e sono queste le sensazioni che vive alla ripresa dell’analisi. Ai primi di Settembre, comunque, Davide la richiama e la invita di nuovo a trascorrere un fine settimana da lui.
    E’ una sorta d’altalena tra speranza e delusione, in una situazione in cui non c’è certezza né possibilità di programmare il futuro.
    Per quanto riguarda il clima dei nostri incontri, l’atteggiamento di Eva nei miei confronti è decisamente più sereno e collaborativo.
    Non è presente quella carica aggressiva che aveva caratterizzato molte sedute prima della interruzione estiva: parla, inizialmente con qualche titubanza ma poi sempre più liberamente, di Davide e del suo rapporto con lui.
    Direi che una parte della sua energia psichica è stata disinvestita dal rapporto analitico ed è ora impegnata nel cercare di comprendere l’evoluzione del rapporto con Davide.
    Da parte mia trovo Eva più disponibile al rapporto con me, sempre attenta ai messaggi che giungono dai sogni, più orientata al rapporto con se stessa.
    Ciò che scrive nel suo diario rende bene qual è il suo vissuto nei miei confronti in questo periodo:
    “Sono arrabbiata con Doc perché in qualche modo lo ritengo responsabile di mandarmi allo sbaraglio… Ma gli voglio bene.
    Perché corro il rischio di non farcela?
    Con Doc non ce l’ho fatta eppure non mi sento uno straccio. In fondo l’unica realtà che non ha accettato di me è stato il mio corpo.
    Non mi sento uno straccio. E’ vero che sono delusa e in qualche modo spiazzata, ma è anche vero che
    lui è l’unico uomo della mia vita che, pur avendo avuto da me “l’autorizzazione” ad esercitare il potere che gli demandavo, me lo ha restituito invece di farne un uso personale.
    Ha rotto la catena, rifiutandosi di vivere il ruolo che io gli attribuivo.
    Rifiutandomi, in un certo senso, ma senza farmi sentire rifiutata “in toto”. Non ha accettato il mio sacrificio!
    Mi ero offerta a lui completamente, senza riserve… senza neppure rendermi conto che mi offrivo per
    perdermi, credendo al contrario di salvarmi.
    Ha accettato tutto di me non per appropriarsene ma per restituirlo.
    Non mi sento uno straccio perché ha restituito a me stessa una parte di me stessa. Non ha voluto far parte del quadro, accontentandosi di essere cornice.
    Ma una tela ha la possibilità di restare intatta anche se la cornice dovesse essere rimossa?”
    Eva è disorientata dal comportamento di Davide. Nel rapporto con lui entra inevitabilmente in gioco la sua fame d’amore e il suo bisogno di una vicinanza concreta chiaramente manifestata ed espressa mediante
    parole e gesti.
    Ciò che sconcerta Eva è che Davide, quando sono insieme, è estremamente disponibile nei suoi confronti, mostra piacere nello stare con lei, la desidera, ma sembra bloccarsi quando Eva vuole parlargli dei
    sentimenti che prova nei suoi confronti o gli pone domande su ciò che lui prova per lei.
    Eva dice che in quelle occasioni avverte che Davide si irrigidisce, cerca di sviare il discorso oppure le ricorda che è ancora valido quanto si sono detti la prima volta, fissando il loro primo incontro dopo la cena:
    “Ricordati che è solo un gioco”.
    Davide sembra quasi ritrarsi di fronte a un coinvolgimento emotivo e ciò in contraddizione con il suo atteggiamento concreto.
    E’ questo che disorienta Eva e che la pone nella necessità di non affrontare apertamente il discorso con lui, anche se ne avverte il bisogno.
    E’ come se lei dovesse mantenere chiuso l’argomento sugli affetti e quindi vivere quella situazione
    giorno dopo giorno, così come si presenta, rinunciando a certezze o promesse o prospettive future.
    E’ questa la tensione emotiva che l’accompagna nel rapporto con Davide e ciò comporta per lei un notevole sforzo, fatica e anche sofferenza.
    Questi sono gli argomenti oggetto di discussione delle sedute di questo periodo. A volte sembra
    prevalere l’incapacità di Eva di tollerare la situazione, a volte è invece presente la distinzione tra le sue aspettative e la difficoltà di Davide a aderirvi, e questo anche come conseguenza dei suoi due rapporti precedenti, quello matrimoniale e quello successivo, entrambi fonte di molta sofferenza.
    E’ come se Davide adottasse una sorta di difesa preventiva nei confronti di un coinvolgimento emotivo, per evitare di trovarsi nuovamente nella condizione di soffrire.
    In queste settimane è comunque visibile un notevole cambiamento in Eva dal punto di vista estetico. Anche stimolata da Davide, adesso ha molta più cura della sua persona, comincia ad usare un leggero
    trucco, va spesso dal parrucchiere, acquista sempre più spesso abiti nuovi, scarpe, borse e ciò soprattutto
    quando è a Venezia. Davide la accompagna nei vari negozi e partecipa attivamente alle scelte, sia consigliandola sia contribuendo agli acquisti.
    La sua immagine estetica, in queste settimane, è decisamente modificata rispetto alla ragazzina “acqua e sapone” di prima.
    Anche lei è sorpresa e compiaciuta di tutto ciò: adesso appare più donna. Durante le vacanze natalizie Eva e Davide trascorrono cinque giorni insieme e questa volta non a casa di Davide. E’ la prima volta che ciò si verifica e lei ne conserva un ricordo piacevole.
    Ha dovuto operare una forzatura su se stessa per evitare di parlare dei loro reciproci sentimenti evitando così irrigidimenti o tensioni in Davide.
    Avverte comunque la difficoltà a contenere lo stato emotivo che ne consegue e ciò determina uno stato di inquietudine di fondo.
    Eva è quindi chiamata a elaborare la dimensione del rapporto che Davide le propone, un rapporto in cui
    vi è una certa difesa dal sentimento. Davide non incarna il maschile ideale, l’eroe solare cui affidarsi, che è ciò che lei cerca da sempre. E’ però una presenza concreta e lei è chiamata ad accettarlo con i suoi limiti.
    Dalla elaborazione di ciò scaturisce la lettera che scrive a Davide:
    “Per me è tempo di accettare quello che la vita mi offre, senza volere assumere ad ogni costo il ruolo di
    Don Chisciotte che combatte contro i mulini a vento.
    Non voglio dire che non spero in qualcosa di più, in un legame più profondo, più completo, più gratificante.
    Verrà, se c’è anche per esso un “tempo” in cui dovrà accadere.
    Ma oggi per me è tempo di vivere questa mia relazione con te e di viverla come essa mi si offre. Quello che puoi darmi me lo stai dando, quello che non puoi darmi, non ho il diritto di pretenderlo.
    Voglio che tu sappia che sono consapevole di quello che faccio, dei rischi che corro, di ciò che vorrei e
    di quello che ho, di ciò che ottengo e di ciò che perdo in questo rapporto con te”.
    Con questa lettera concludo il racconto delle vicende analitiche del rapporto con Eva.
    Altre cose seguiranno nell’anno successivo: il conseguimento della laurea, la progressiva stabilizzazione del rapporto con Davide, la progressiva stabilizzazione del rapporto con me, che acquisisce carattere sempre
    più paritario e infine la realizzazione del desiderio di andare a vivere per conto proprio.
    Nessuno di questi passaggi è stato indolore e soprattutto l’ultimo ha comportato il pagamento di un elevato prezzo emotivo.
    Molti di coloro che hanno letto il libro mi hanno chiesto qualcosa di più sul “dopo”, poco soddisfatti
    dalle poche indicazioni contenute nel libro.
    A me è sembrato opportuno interrompere il racconto a questo punto, con la lettera di Eva a Davide. Del resto non volevo raccontare una storia a lieto fine, una di quelle in cui “tutti vissero felici e contenti”.
    Il mio scopo era di raccontare un percorso analitico. Non si è trattato, così come non si tratta mai, di un
    percorso lineare, ma piuttosto oscillante, con oscillazioni a volte violente.
    Inizialmente Eva cerca il riempimento del suo vuoto interiore dall’esterno, con l’illusione che qualcuno dal di fuori possa riempirlo ed è a questo qualcuno che lei opera una delega totale della propria esistenza.
    E’ solo poco per volta che riesce ad orientare la ricerca all’interno di se stessa, acquisire una propria autonomia, assumere su di sé la responsabilità della propria esistenza e ritirare la delega totale all’esterno,
    che prima caratterizzava il suo rapporto con l’altro.
    Si rende quindi possibile il rapporto con Davide che completa il distacco dal materno, segna l’abbandono delle pretese di certezze assolute che solo un invincibile eroe solare potrebbe dare e porta Eva ad accettare il
    rapporto con un uomo reale, in un contesto reale di cui fa parte anche la precarietà e la mancanza di garanzie.
    Ma la cosa più importante ritengo sia la seguente: dopo un lungo e sofferto percorso analitico, Eva ha adesso la possibilità di accedere e attingere alla riserva energetica presente all’interno di se stessa e, grazie ad essa, sarà in grado di affrontare i vari momenti critici che la vita le porrà nel suo cammino.