• Centro Depressione Ansia e Attacchi di Panico - Corso Marconi 2 (ang. Via Nizza)
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  • Così Chiara racconta la sua storia.

    Mi è capitato di leggere che gli attacchi di panico avvengono con una certa frequenza in automobile, e anche a me è capitato in questo modo. Senza preavviso, senza un motivo apparente: come un fulmine a ciel sereno.
    In realtà il cielo non era affatto sereno quel mattino. Ero, come ogni giorno a quell’ora, in automobile, in coda come tante altre persone, per recarmi al lavoro. Il cielo autunnale era grigio, gonfio di nubi minacciose, la strada trafficata e intasata di automobili. All’improvviso il cielo su di me si fece più scuro, i muri delle case sembrarono piegarsi per soffocarmi in una morsa mortale, e l’auto, ferma in coda, mi parve di colpo troppo piccola, soffocante. Mi sentivo intrappolata nell’abitacolo, senza via d’uscita.
    Malgrado i rigori del freddo stagionale sentii affiorare vampate di calore alternate a sudori freddi, su tutto il corpo e alla radice dei capelli.
    Il respiro affannoso, il cuore che batteva forte, ebbi un solo impulso: quello di precipitarmi fuori dall’auto e fuggire lontano, oltre la coda di automobili, oltre la via troppo stretta e scura, alla ricerca di uno spazio aperto che mi permettesse di tornare a respirare profondamente, di un chiarore che venisse a illuminare quel cielo fattosi troppo minaccioso e incombente. Fui sopraffatta da un senso di angoscia, di catastrofe imminente e ineluttabile, di morte.
    Non so come riuscii a vincere quell’impulso così forte, violento, e a rimanere aggrappata al volante, a procedere nella coda senza abbandonare davvero l’automobile, lì, in mezzo al traffico, lasciando ad altri il compito di rimuoverla.
    Non so come riuscii a non lasciarmi sopraffare dall’angoscia, dalla paura di soffocare, di morire, a sopportare i battiti accelerati del cuore che pareva voler uscire dal petto.
    In realtà non ho un ricordo preciso di come riuscii a raggiungere l’ufficio presso il quale lavoro. Capii quasi subito quello che mi stava succedendo: ero in preda a un attacco di panico. Per me, fino a quel momento, tutto questo era stata soltanto letteratura, oggetto di letture divulgative sull’argomento.
    Ho 45 anni e lavoro in uno studio di pubblicità. Svolgo un’attività interessante e coinvolgente, anche se i lunghi orari e i ritmi serrati di lavoro sono necessariamente fonte di stress. Sono sposata da 15 anni e ho scelto di non avere figli. Da qualche anno la mia vita matrimoniale si è fatta difficile e a mano a mano che passa il tempo il distacco con mio marito sembra accentuarsi sempre più.
    In realtà, a pensarci bene, avevo avuto qualche avvisaglia già molti anni prima, cui non avevano fatto seguito episodi tali da mettermi in allarme.
    Dopo la morte di mia madre, avvenuta quasi vent’anni or sono, cominciai a sentirmi a disagio di notte, al buio. La perdita di mia madre aveva cambiato sensibilmente il mio approccio alla vita e nel corso degli anni seguenti avevo quasi coltivato dentro di me la desolazione causata dalla sua mancanza, il ricordo ossessionante delle dolorose circostanze della sua malattia, del mio senso d’impotenza di fronte alla sua sofferenza, degli effetti devastanti operati dal male sulla sua persona. In quel periodo avevano fatto la loro comparsa anche vaghi pensieri di morte: non si trattava di un reale desiderio di morire, tanto meno di impulso al suicidio, quanto di un senso accentuato di inutilità della vita, della fatica di vivere che così spesso accompagnava le mie giornate. Avrei semplicemente preferito non essere nata, e ti tanto in tanto la notizia della scomparsa di una persona conosciuta mi provocava, anziché un senso di pena, quasi una sensazione di sollievo.
    Da allora, in situazioni di stress, mi era capitato qualche volta, durante le sere d’inverno, quando viene buio molto presto, di provare all’improvviso un senso di soffocamento, mentre la luce elettrica pareva farsi più fioca e le pareti della camera in cui mi trovavo sembravano ripiegarsi piano piano su di me.
    In quei casi andavo al alzare la tapparella abbassata e uscivo sul balcone per qualche minuto, anche se era già buio, per vedere lo spazio aperto oltre la casa, per liberarmi dai fantasmi che volevano togliermi il respiro, stringermi in una gelida morsa di paura e di affanno.
    Negli anni a venire mi capitò ancora di non sopportare il buio. Dormivo sempre con una piccola lampada accesa e se mi addormentavo dimenticando di accenderla oppure se veniva a mancare per qualche tempo la corrente mi svegliavo di colpo, come messa in allarme da un sensore invibile, malgrado gli occhi chiusi e i sensi assopiti.
    Il più delle volte mi precipitavo fuori dal letto, in preda alla paura e all’impulso irrefrenabile a non rimanere lì, in un bagno di sudore: andavo alla finestra e guardavo fuori, recuperando piano piano la calma necessaria per rimettermi a letto. Altre volte riuscivo a rimanere distesa, con un grande sforzo di volontà, e mi bastava visualizzare con l’immaginazione il “fuori”, gli spazi aperti conosciuti, meglio ancora se amati, per sentirmi meglio.
    Ma sono stati, questi, episodi sporadici, sempre superati in un lasso di tempo relativamente breve e, tutto sommato, dimenticati in fretta.
    Quel mattino fu tutt’altra cosa. Arrivata in ufficio il mio primo pensiero fu quello di come fare a rimettermi in automobile per tornare a casa. Di provarci subito, neanche a pensarci: sentivo ancora l’abitacolo stringersi sempre più su di me, farsi così piccolo e soffocante da togliermi il respiro. Anche in ufficio mi sentivo a disagio, malgrado l’ambiente di lavoro che condivido con altri colleghi sia ampio e spazioso. Lo svolgersi frenetico delle attività attorno a me mi dava fastidio: perché; tutto quel correre, quel parlare, telefonare, perché gli altri erano tranquilli, “normali”, e io mi sentivo morire?
    Non riuscivo a lavorare; mi avvicinai più volte alla finestra per guardare fuori, ma il cielo plumbeo e il grigiore che pareva avvolgere tutto il mio campo visivo non davano certo sollievo alla mia angoscia.
    Feci un paio di telefonate per cercare aiuto. Mi venne segnalato da un’amica il “Centro depressione ansia e attacchi di panico”. Pensai che il nome prometteva bene: se non avessi trovato qui un rimedio al mio malessere nessun altro avrebbe potuto aiutarmi.
    Mi rispose al telefono una voce cortese, che non mi fece sentire a disagio per le mie parolee che sentivo uscire alterate e affannate. Dopo qualche minuto avevo già un appuntamento per il giorno dopo. Se avessi voluto sarei stata ricevuta già quella sera stessa, nel tardo pomeriggio, ma il mio pensiero fisso era quello di tornare a casa prima che facesse buio: il tragitto in auto, il traffico, ma soprattutto il buio della sera mi terrorizzavano.
    Dopo qualche esitazione mi recai in una farmacia. Chiesi una confezione di ansiolitico, ma ero sprovvista di ricetta medica e le tre dottoresse in camice bianco non sembravano disposte a concedermelo, schierate dietro la barriera del lungo bancone.
    Per fortuna in quel momento non vi erano altri clienti nella farmacia. Spiegai che avevo avuto un attacco di panico, che abitavo fuori città e senza un aiuto farmacologico non ce l’avrei fatta a tornare a casa da sola. Specificai anche che avevo già fissato un appuntamento con uno specialista per il giorno seguente, e sarei tornata con una ricetta medica: magari non lo stesso farmaco, ma certamente qualcosa del genere mi sarebbe stato sicuramente prescritto.
    Si consultarono con lo sguardo e infine mi concedettero la scatoletta di compresse. In quel momento mi sentii come un tossico che pretenda una dose da iniettarsi e questo non fece che aumentare il mio disagio.
    Rientrai in ufficio ancora più avvilita e angosciata, e inghiottii una compressa senz’acqua, quasi di nascosto anche verso me stessa, pervasa da un sentimento di angoscia e da un vago senso di colpa. Ma perché avrei dovuto sentirmi in colpa? Stavo male, ma i mali dell’anima sono sempre così poco condivisibili, così poco compresi che si finisce per rinchiudersi sempre più in se stessi, in una spirale di disagio e di dolore che non concede tregua. Ma se ci si isola in questi casi è anche per non
    essere oggetto di curiosità, di commiserazione, di sguardi indagatori e perplessi come quelli delle tre farmaciste.
    Dopo un po’ cominciai a sentirmi meglio. Volevo a tutti i costi dimostrare a me stessa che tutto andava bene: arrivai persino a pensare che forse ero stata troppo frettolosa nel fissare l’appuntamento con il medico per il giorno dopo.
    Cercai di lavorare un po’, con risultati assai sconfortanti, ma i miei sforzi erano volti soprattutto a non lasciar trapelare il tumulto di emozioni, paura, affanno e angoscia che si agitavano in me.
    Solo verso la metà del pomeriggio, con l’imminenza del buio della breve giornata d’autunno avanzato, mi risolsi a tornare a casa, ad affrontare il breve viaggio di ritorno in auto tanto temuto.
    Il giorno dopo, l’appuntamento. Il forte senso di disagio che mi accompagnava si dissolse nel corso della seduta. Parlavo liberamente e qualcuno mi stava ad ascoltare, mi capiva, mi faceva domande per capire meglio lo stato delle cose.
    Ebbi una risposta a tutte le mie domande. Ricordo di aver esordito dicendo: “Credo di avere avuto un attacco di panico, e mi è bastato. Vorrei fare in modo che non si ripeta”. Ebbi la conferma che si trattava proprio di un attacco di panico, e inoltre mi fu riscontrato un tono dell’umore piuttosto basso: un altro modo per dire che ero affetta da una forma depressiva.
    Mi fu spiegato qual era il mio stato di salute attuale e mi vennero date tutte le informazioni sulle possibilità di cura e i loro possibili esiti.
    Malgrado la diagnosi non proprio rassicurante, uscii dallo studio medico sollevata: mi sarei curata, era possibile farlo, e dunque sarebbe stato possibile uscire dalla spirale di sofferenza in cui mi trovavo avvolta. Ora sapevo di poter essere aiutata.
    Iniziai una cura farmacologica a base di antidepressivi e ansiolitici, in dosaggi piuttosto contenuti. Presi in esame l’idea di intraprendere una terapia analitica, come mi era stato prospettato nell’ambito delle possibilità terapeutiche, ma forti resistenze mi bloccavano in questo senso. Desideravo e temevo nello stesso tempo di andare fino in fondo a me stessa.
    Per qualche mese rispettai la cadenza mensile degli appuntamenti, come mi era stato consigliato, per verificare gli effetti della cura e gli eventuali cambiamenti da apportarvi. Riscontrai un consistente miglioramento del mio stato di salute già dopo 15-20 giorni di terapia farmacologica. Stavo meglio, il tono dell’umore migliorava, anche se a fasi alterne. Tuttavia sentivo dentro di me qualcosa di inconcluso, o meglio qualcosa che “spingeva” e che non trovava la strada per affiorare. Inoltre non erano del tutto scomparsi quei vaghi pensieri di morte che di tanto in tanto facevano ancora la loro comparsa, come già mi era capitato in passato, specie nei momenti più difficili.
    Gli incontri mensili con il terapeuta erano per me come altrettante boccate d’ossigeno, poiché in quelle occasioni potevo parlare a ruota libera di quanto si agitava in me, mi veniva dato ascolto, le mie domande ricevevano una risposta: mi pareva ogni volta di uscire un po’ più rafforzata.
    Poi, in primavera, ebbi un crollo, determinato dal peggioramento delle condizioni di vita nel mio ambito familiare. Lo specialista mi prospettò l’idea di una terapia analitica, con sedute a cadenza settimanale. In realtà sapevo fin dall’inizio che solo questa sarebbe stata la strada giusta per me, tuttavia opposi ancora delle resistenze che il mio interlocutore ridimensionò con una certa facilità. Temevo soprattutto l’idea di intraprendere un lungo percorso di cui non riuscivo a vedere la fine: sai quando cominci ma non sai quando finisci, mi dicevo. Ma anche a questo problema mi fu data una soluzione. Era la fine di marzo, o forse i primi di aprile, e concordai di “provare” per quattro mesi, fino alle vacanze estive. Poi avrei deciso se proseguire o interrompere.
    All’inizio di settembre non mi posi neppure il problema: fu del tutto naturale telefonare al Centro per riprendere le sedute.
    Ora, dopo oltre un anno di terapia, il mio atteggiamento nei confronti della vita è del tutto cambiato e sento in me una determinazione prima sconosciuta nell’affrontare la vita e i miei problemi quotidiani.
    Ho acquisito una maggiore consapevolezza di me stessa: delle mie risorse interiori e intelletive, troppo spesso dimenticate o sottovalutate in primo luogo proprio da me, col risultato di una maggiore sicurezza e fiducia in me stessa; della possibilità di svincolarmi da legami che mi costringono a una vita ripiegata su me stessa e, guarda caso, mi danno un senso di soffocamento interiore; persino del mio aspetto fisico, del mio modo di pormi agli altri e della possibilità di ampliare la cerchia delle mie relazioni interpersonali.
    I miei problemi in famiglia non sono ancora del tutto risolti, ma ho preso coscienza del meccanismo perverso che mi ha condotta a fare, in passato, delle scelte che ora mi appaiono troppo “soffocanti”.
    I miei impulsi verso la libertà si sono esplicitati in maniera concreta: ho iniziato a ridurre i castighi che mi sono autoimposta in questi anni, mi sono concessa spazi personali del tutto impensati prima. Ho cominciato a liberarmi da quelle catene cui io stessa mi ero strettamente legata. E la produzione industriale di sensi di colpa che ha sempre condizionato le mie scelte è venuta piano piano calando. Dicevo sempre che se avessi potuto vendere i sensi di colpa che producevo sarei diventata enormemente ricca. Ora non è più così: non mi garantirebbero nemmeno una rendita sufficiente a sopravvivere!